La decisione di Silvio Berlusconi di sottoscrivere tutti i referendum radicali - e non soltanto quelli sulla giustizia - ha subito messo in allarme molti giocatori avversari, nonché un certo numero di arbitri e guardalinee. E il motivo è semplice: con questa mossa, il Cavaliere esce dalla guerra di trincea e, anche sulla giustizia, ingaggia una guerra di movimento. L'appoggio alla causa referendaria trasforma lo scontro sulla decadenza personale di un senatore in una battaglia politica generale sul ruolo, i poteri e i limiti della magistratura nel nostro Paese.
Anche questa scelta, a ben vedere, s'incardina nel progetto di una nuova Forza Italia, più movimentista e corsara dell'ingessato Pdl e più attenta ai diritti dell'individuo, e forse non è un caso che, oggi come agli esordi nel '94, Berlusconi trovi in Pannella un interlocutore e un possibile compagno di strada. Quel che è certo, è che la campagna referendaria modifica gli schemi di gioco e rischia di trasformarsi nell'ennesimo referendum sul Cavaliere: ed è proprio questo che i suoi avversari temono di più.
I primi ad essere in allarme sono naturalmente i Democratici. L'alleanza Pannella-Berlusconi è di per sé motivo di imbarazzo, un po' perché gli altri referendum radicali, firmati anch'essi dal Cavaliere, sposano cause tradizionalmente di sinistra; e un po' perché gli stessi referendum sulla giustizia, nel merito, disegnano una riforma persino meno incisiva di quella proposta dal verde Boato e approvata dalla Bicamerale di D'Alema tre lustri fa. Ma è soprattutto lo scontro diretto con Berlusconi, senza intercapedini politiche o partitiche, a spaventare la sinistra: che, come per un riflesso pavloviano, alza immediatamente i toni e addirittura mette sotto processo un dirigente storico (ed ex magistrato) come Violante, reo di aver rivendicato il diritto di Berlusconi alla difesa.
Non meno preoccupato è Enrico Letta, e con lui le ali governative dei due maggiori partiti della coalizione. Ai loro occhi, il referendum è una specie di piano B, pronto a scattare se non ci saranno nuove elezioni a breve. Si terrebbe infatti nella primavera dell'anno prossimo, alla vigilia o subito dopo le elezioni europee, sottoponendo il governo ad una pressione permanente e la maggioranza a tensioni continue. Uno scenario di questo genere, com'è ovvio, non piace neppure al Quirinale. Proprio Napolitano, però, all'indomani della condanna di Berlusconi in Cassazione aveva richiamato la maggioranza alla necessità di una riforma della giustizia, raccogliendo gli applausi del Pdl e l'imbarazzato silenzio del Pd. La mossa referendaria è anche un modo per riaprire bruscamente quel capitolo, passato rapidamente in secondo piano, inchiodando sia il Quirinale sia la maggioranza alle proprie responsabilità e riaprendo in Parlamento, nell'anno che ci separa dal voto, il capitolo giustizia.
E poi, naturalmente, ci sono i magistrati, o per meglio dire quella parte di pubblici ministeri che hanno del proprio mestiere una concezione catartica e messianica, sovraordinata alle istituzioni democratiche e per questo chiamata ad una vigilanza continua e pressante sulla politica, o almeno su una sua parte. È proprio questo settore della magistratura a difendere più strenuamente l'unicità delle carriere - che è un unicum italiano - e a combattere ogni forma di responsabilità civile. Per loro lo scontro con Berlusconi è prima di tutto una difesa a oltranza dei propri privilegi, a cominciare da una sostanziale irresponsabilità e inamovibilità.
Con l'appoggio ai referendum Berlusconi ha dunque aperto un secondo forno - nel primo sta cuocendo la maggioranza sulla politica economica e sulle tasse - destinato a surriscaldare una coalizione non propriamente compatta.
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