Chi strattona l'Antimafia fa solo il gioco dei boss

La staffilata a Giovanni Melillo arrivata qualche giorno fa dalle colonne del quotidiano Il Domani è passata quasi inosservata, eppure tradisce - ancora una volta - lo stato confusionale che attanaglia i professionisti dell'Antimafia

Chi strattona l'Antimafia fa solo il gioco dei boss
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«Sulle due inchieste parallele di Firenze e Caltanissetta» legate alle stragi tra il 1992 e il 1994 «servirebbe una Procura nazionale antimafia». La staffilata a Giovanni Melillo arrivata qualche giorno fa dalle colonne del quotidiano Il Domani è passata quasi inosservata, eppure tradisce - ancora una volta - lo stato confusionale che attanaglia i professionisti dell'Antimafia. Sulla morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino ci sono ancora molti interrogativi irrisolti. La caccia ai presunti mandanti si muove su due filoni giudiziari certamente poco conciliabili. Per i pm della Procura di Firenze Luca Turco e Luca Tescaroli (oggi a Prato, accolto da serie minacce di morte) l'ex capo dei Ros Mario Mori accusato di «strage, mafia e terrorismo» avrebbe fatto il gioco dei boss per non aver impedito le stragi che secondo i pm spalancarono la strada a Silvio Berlusconi. Eppure - secondo il processo sulla trattativa Stato-mafia - Mori ne avrebbe invece scongiurato altre. L'indagine della Procura di Caltanissetta sull'ex procuratore capo di Roma, Palermo e Reggio Calabria Giuseppe Pignatone invece dà ragione al generale dei carabinieri perché contesta al magistrato, con l'aiuto del pm Gioacchino

Natoli, la volontà di aver sottovalutato e depotenziato l'indagine sul dossier mafia-appalti firmata da Mori per agevolare esponenti della borghesia mafiosa palermitana che andavano a braccetto con imprese del Nord come Montedison. Uno schizzo di fango destinato comunque a lasciare un segno indelebile sulla carriera fin qui impeccabile del presidente del tribunale del Vaticano. Non solo perché coinvolge uno dei magistrati più esposti nella lotta alla mafia ma perché riaccende i riflettori sul «nido di vipere» di cui parlava Borsellino, agli scontri con il discusso Pietro Gianmanco, il primo a voler mettere una pietra sopra a quel dossier tanto bistrattato a cui Borsellino aveva probabilmente dedicato gli ultimi giorni della sua vita. Lo ha ricordato di recente a Milano lo stesso Mori durante la presentazione del suo libro la verità sul dossier mafia-appalti: «Imprese nazionali e internazionali guerreggiavamo per lavori di poca importanza, come la manutenzione di strade, fogne e scuole, tanto pagava lo Stato, con una contabilità artefatta per finanziare mafiosi e politici», grazie alla regia del ministro dei Lavori pubblici di Cosa Nostra Angelo Siino. Mori non è mai stato tenero con Pignatone: «C'era una società, la Sirap, che gestiva mille miliardi di lire, controllata dalla Espi guidata da suo papà, eppure non rinunciò alle indagini».

L'indagine venne archiviata in fretta e furia mentre il giudice morto in Via D'Amelio era ancora nella camera ardente e fu sepolta dal gip in un pomeriggio post ferragostano. «Possibile che Mario Mori sia un mostro per Firenze e un genio per Caltanissetta?», si chiede sul Domani l'ex Repubblica Attilio Bolzoni, che tira per la giacchetta Melillo, come se debba decidere quale delle due indagini è «giusta» e quale no. Il sospetto è che per alcuni la lotta alla mafia non ha come obiettivo le effettive responsabilità di chi, dentro e fuori le istituzioni, ha aiutato la mafia a far piombare il Paese nel terrore. Ma che la guerra ai clan sia funzionale a lastricare di presunti successi le carriere di magistrati e politici «amici», soprattutto chi da quella stagione ha incassato un sostanzioso dividendo, mentre i boss se la ridono.

E bene fa la commissione Antimafia presieduta da Chiara Colosimo a voler fare luce su quegli anni, anche se i soliti giornalisti del «Sistema» fanno spallucce. La stagione dei «professionisti dell'antimafia», come da felice definizione di Leonardo Sciascia, e del solito giornalismo strabico sembra arrivata al crepuscolo.

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