I testi del caso Ruby? Credibili se fanno comodo

Anomalie, preve inesistenti, contraddizioni: ecco i buchi neri delle motivazioni

Il pm Annamaria Fiorillo
Il pm Annamaria Fiorillo

Milano - Sarebbe forse un po' sbrigativo concludere che hanno creduto solo ai testimoni che gli facevano comodo. Ma analizzando i meccanismi di valutazione delle prove che hanno portato i giudici di Milano a condannare Berlusconi per il caso Ruby si ha l'impressione di un metodo che difficilmente resisterebbe a una verifica sul piano della logica formale. Dicono le motivazioni depositate l'altro ieri: i testi dell'accusa sono per definizione credibili, in quanto disinteressati; poiché quelli della difesa affermano il contrario, ergo sono automaticamente inattendibili e menzogneri. Punto.
Un esempio di questo argomentare è il passaggio dedicato a Maria Makdoum, una delle ragazze che hanno descritto le serate di Arcore come festini a luce rossa. «A riprova della assoluta attendibilità della testimonianza si deve rilevare che il 12 luglio 2010 il telefono cellulare in uso alla Makdoum agganciava le celle dislocate sul territorio di Arcore»: il che ovviamente dimostra solo che la Makdoum era effettivamente a casa di Berlusconi. E invece la verità sulla sua presenza ad Arcore si riverbera senza riscontri in verità dell'intero racconto: «assoluta attendibilità». O, ancora meglio, la faccenda della statuetta fallica che allietava le cene. Secondo alcuni testi, l'oggetto passava di mano in mano tra qualche risolino; secondo le giovani Ambra Battilana e Chiara Danese invece, le ospiti più disinvolte simulavano rapporti di sesso orale con la statuetta. C'è un po' di differenza. Ma la sincerità di Ambra e Chiara per i giudici viene confermata proprio dai testimoni che negano di avere mai assistito a accenni di fellatio: «Le contraddizioni dei testi della difesa, artificiosamente tese ad eliminare ogni connotazione sessuale ai comportamenti delle ospiti e del padrone di casa, finiscono al contrario per confermare il racconto delle due giovani ragazze». Mah.
Vicina all'atto di fede è la attendibilità riconosciuta dai giudici alla loro collega Annamaria Fiorillo, il pm dei minori che sostiene di avere proibito di affidare Ruby a Nicole Minetti, e che lo fa (pagina 73) «in modo convincente»: ma anche la Fiorillo è un magistrato e il tribunale ben può avere assegnato alla sua parola un peso specifico particolare. Più singolare è la totale credibilità che viene assegnata dalla sentenza ai verbali di Piero Ostuni, il funzionario di polizia che la notte del 27 maggio parlò con Berlusconi, secondo i giudici ne ricevette l'ordine di consegnare Ruby a Nicole Minetti, e invece di mandare Berlusconi a quel paese - come per legge avrebbe dovuto fare - subì e trasmise l'ordine per evitare guai di carriera. Come è possibile che la parola di un poliziotto carrierista e succube venga presa per oro colato? Su questo punto le motivazioni glissano. Ma la verità è più semplice: Ostuni non ha mai detto di avere ricevuto alcun ordine da Berlusconi. Pagina 52 delle motivazioni: «L'imputato gli disse che sera stata accompagnata in questura una ragazza nordafricana che gli era stata segnalata come nipote di Mubarak e gli chiedeva di interessarsi a questa vicenda. Berlusconi gli disse anche che un consigliere parlamentare, la signora Minetti, si sarebbe fatta carico della giovane». Circa 50 pagine dopo, i giudici scrivono: «risulta provato che Berlusconi ordinò al dottor Ostuni di consegnare in affido la minore alla consigliera parlamentare Minetti senza che il capo di gabinetto potesse sottrarsi alla disposizione impartitagli». Una brusca metamorfosi della realtà processuale di cui invano si cercherebbe una spiegazione nelle motivazioni.
E avanti così, tra sanzioni tranchant come quella a carico della povera Francesca Loddo, incriminata per falsa testimonianza per avere giurato di essere stata anche lei presente in questura, mentre dai registri non risulta: ma non si spiega a che pro la showgirl dovrebbe essersi inventata tutto.

O improvvisate perizie foniche come quella che incastra Valentino Valentini, colpevole di avere riferito dettagli sul vertice italo-egiziano che non poteva avere sentito perché «non si trovava in una posizione favorevole per seguire da vicino la conversazione, oltretutto confusa».

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