Elogio dei favoritismi: convengono ai migliori

Uno studio Usa (e il "Wall Street Journal") rivalutano i capi che vezzeggiano solo i dipendenti più bravi. Una forma più elastica di meritocrazia. Ripudiata in Italia

Elogio dei favoritismi: convengono ai migliori

Sarà che siamo rimasti tutti traumatizzati da piccoli («hai sempre preferito mio fratello a me!») o che ne abbiamo viste troppe in coda all'anagrafe: «Lei ha già fatto la fila ieri, venga avanti signora». È così, probabilmente, che abbiamo maturato un'allergia per il concetto di favoritismo. Il solo sospetto di non essere noi a ricevere l'aiutino ci trasforma in pericolosi sociopatici perfino al supermercato: caso classico, attempate massaie che si trasformano in minacciose arpie pronte a sbraitare alla cassiera che fa passare avanti donne incinte all'ottavo mese o anziani disabili.

Ecco perché ci suona come un accordo stonato l'elogio del favoritismo promosso da uno studio dell'Università della British Columbia e perdipiù promosso in prima pagina da un giornale paladino delle ragioni del business come il Wall Street Journal. Favoritismo alle nostre orecchie è diventato un sinonimo di favore elargito ingiustamente. Ma questa oscura parola ha un lato luminoso, poco esplorato, soprattutto in Italia, che lo rende una versione «morbida» dell'abusata meritocrazia. L'una, la meritrocrazia, è potere del merito, richiama alla mente regolamenti e meccanismi incentivanti, ma anche rigida discriminazione in favore del collega secchione, che magari sta più ore seduto dietro la scrivania, ma non necessariamente produce di più o giova alla buona navigazione dell'azienda. L'altra, il favoritismo, indica un atteggiamento premiante più soggettivo, perché legato alle «sensazioni» del capo, non rinchiuso nelle reti di contratti integrativi e premi di produttività un tanto al chilo, ma regolato dalle «sensazioni» del capo. Certo - ammette la psicologa Peggy Drexler, autrice dell'articolo sul Wall Street Journal -resta il rischio che il boss preferisca un collega all'altro perché tifa per la stessa squadra, perché veste più alla moda o perché gli ha procurato i biglietti per il concerto di Springsteen a San Siro. É il lato oscuro del favoritismo che, fatta la tara all'ottimismo di una psicologa anglosassone, probabilmente è ineliminabile.

Lo studio dei ricercatori però certifica che trattare meglio i dipendenti più in gamba migliora la produttività, soprattutto se lo si applica senza mortificare gli altri e lasciando a tutti la possibilità di diventare, temporaneamente, i favoriti.
Calato da noi, potrebbe significare finirla con i rituali proclami sulla meritocrazia, puntuali a ogni cambio di governo, ma anche a ogni capo nuovo che viene nominato in ufficio, e puntualmente delusi. Si tratterebbe di muoversi non contro regole sindacali flessibili come pali di cemento, ma attorno a esse: a chi lavora bene si potrebbe allentare il freno sull'orario di lavoro, sui permessi, sull'uso di benefit aziendali.

Secondo lo studio americano, il 92% dei manager sostiene che nella propria azienda sono stati fatti favoritismi nelle promozioni, mentre il 25 per cento sostiene di aver praticato favoritismi tra i propri sottoposti. Al netto di una certa quota di invidie professionali e paranoie che fluiscono abbondanti tra stanze, open space e cubicoli in cui scorre la nostra vita professionale, il sondaggio riflette una società in cui non tutti vengono trattati allo stesso modo. Da noi sarebbe possibile farla finita con l'egualitarismo del demerito che premia solo i fancazzisti? Bisognerebbe mettere in discussione certi meccanismi sacri e perversi, tipo gli scatti di anzianità, che piacciono ai sindacati, perché frutto di una contrattazione su cui possono incidere, ma in fondo non dispiacciono nemmeno alle aziende.

Perché attuare favoritismi «positivi», decidere chi è bravo e chi no, e distribuire i premi in proporzione, in fondo è una gran fatica per i manager. Meglio lasciar tranquilli i furbi. Tanto gli alacri lavoreranno al posto loro. Fino al prossimo «scatto».

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