Finire sul lastrico per colpa di Equitalia non è una novità. Finire sul lastrico, venire accusato di bancarotta fraudolenta ed essere assolto «perché il fatto non costituisce reato» è invece una buona notizia. La fine di un incubo.
Così, la storia vera di Giovanni D., 54 anni, di Fara Gera d'Adda in provincia di Bergamo, titolare con la moglie di una ditta di assemblaggio di parti elettriche d'ora in poi potrà rappresentare un precedente importante nella giurisprudenza delle ingiustizie subite per colpa di questo nostro fisco sempre pronto ad azzannare. Già, perché i problemi per Giovanni, pensate un po', sono cominciati vent'anni fa, nel 1994, quando gli è arrivata una cartella esattoriale di 12 milioni di lire relativa a una precedente attività con altri soci, un caseificio. Uscito dalla società proprio nel '94 Giovanni apre con la moglie un'altra impresa dedicata all'assemblaggio di parti elettroniche, dimenticandosi però, errore che si è rivelato carissimo, di togliere la sua firma dalla società a cui era stato legato in precedenza. «Quella dimenticanza - racconta - è stata la mia rovina. Mi sono piombate addosso cartelle esattoriali a raffica. Non ne sapevo nulla: 12 milioni di lire che con il tempo sono lievitati a 240mila euro. Arrivavano a me, perché gli altri soci non avevano beni. Prima dalla Bergamo Esattorie, poi da Equitalia, a mio nome e a quello dell'azienda. Ma io non c'entravo nulla se non per quella firma. Così pur di non finire nei guai ho deciso di pagare. Nel 1995 abbiamo svenduto per 140 milioni di lire, metà del suo prezzo una casa a Cisano ma nel frattempo sono arrivate altre cartelle. Allora, nel 2003, io e mia moglie abbiamo venduto anche un'altra casetta: tra acquisto e ristrutturazione ci era costata 260mila euro, l'abbiamo data via a 160mila. Quindi ho ottenuto la rateizzazione del debito residuo. Potevo farcela: 1.000 euro al mese a Equitalia e 500 euro per noi».
Un po' di sollievo? Macché, per Giovanni le cose sono precipitate per colpa della concorrenza cinese: «Pensate che dalla Germania avevo ordini per 450mila euro che sono stati revocati nel giro di due mesi: o ci fai gli stessi prezzi o compriamo da loro, io ho risposto che non potevo. Intanto erano arrivate altre cartelle. Quindi ho venduto la casa di mia moglie in cui vivevamo, a 230mila euro a fronte di un valore di 400.000. Ero in rosso di 80mila euro con la banca che, saputo della vendita dell'abitazione, mi ha chiamato e ha detto che dovevo portare i soldi da loro. Mi era rimasto il capannone dove oggi vivo. Avevo trovato un acquirente. Valeva 355mila euro: con quei soldi avrei pagato Equitalia - che nel frattempo voleva metterlo all'asta - la banca, il mutuo in un'altra banca e mi sarebbero rimasti 50.000 euro. Ma nel 2010 mi è arrivato il pignoramento cautelativo e a luglio è stato dichiarato il mio fallimento. Non l'ho chiesto io».
Quindi il surreale epilogo: l'accusa di bancarotta fraudolenta per sottrazione: 244.388 euro tolti dalla sua precedente attività per pagare Equitalia e altri 115.324 dal conto in banca per privilegiare altri creditori. «Ma io - si giustifica Giovanni - non ho tolto i soldi dalla società, erano i miei, frutto della vendita delle case».
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