La fantascienza è qui Arriva la telecamera che dà un nome ai volti

Il governo Usa: siamo vicini al "riconoscimento facciale". Una svolta per la sicurezza, ma è già polemica sulla privacy

La fantascienza è qui Arriva la telecamera che dà un nome ai volti

«Manda la foto all'Fbi per il riconoscimento facciale». In tv lo fanno già da anni. Ora pare che la realtà voglia recuperare il tempo perduto sulla fiction, che già con Schwarzenegger in Total recall (film del 1990), dava per scontata l'esistenza di una tecnologia che consente di associare un volto a un nome, riconoscendolo da un archivio di immagini precedentemente raccolto.

I ricercatori incaricati dal dipartimento della Homeland security del governo americano dicono che la fantascienza è ora. O quasi: sono già in corso esperimenti che danno risultati soddisfacenti, ma la previsione, secondo il New York Times, è di arrivare al varo entro 5 anni di un sistema di «facial recognition» in grado di identificare un volto ripreso a 100 metri di distanza da una telecamera con una percentuale di accuratezza dell'80-90 per cento.
È un obiettivo straordinario, se si pensa che l'America ci lavora da dieci, buttando milioni sul piatto della ricerca. L'Fbi in realtà ha già un sistema che guida nel confronto di fotografie, ma ora sta investendo un miliardo di dollari per arrivare a un vero database di immagini da usare con un sistema come quello inseguito dall Homeland Security: un software in grado di comparare con le foto degli archivi immagini catturate fortunosamente da telecamere di sorveglianza, dunque non troppo a fuoco, in condizioni di luce scarsa, in movimento, magari mentre piove. Serve un sistema ben più sofisticato di quello che permette a Facebook già dal 2010, di riconoscere le persone presenti in una foto, se sono già iscritte al social network. Qui parliamo non solo di confrontare foto in due dimensioni, ma di identificare, in tempo reale, il nome di una persona che compare in immagini in 3D di bassa qualità.

E pensare la tempesta delle polemiche sulla privacy si è abbattuta già su Facebook, che usa il sistema solo per aiutare l'utente a «taggare» gli amici, cioè a segnalare loro che sono presenti in una foto pubblicata sul social network. Il dibattito sul nuovo «Grande Fratello» tecnologico è già iniziato. In Italia, c'è da scommettere, ci fermeremo allo stadio della sterile polemica. Basti pensare che da noi non è mai decollato nemmeno l'archivio dei Dna, che invece è operativo negli Stati Uniti, dove ha permesso non solo di far condannare tanti criminali, o presunti tali, ma anche di far assolvere decine di innocenti, vittime di errori giudiziari figli dell'era pre-genetica.

A incoraggiare gli investimenti, negli Stati Uniti è soprattutto la minaccia terroristica. Il più giovane dei fratelli Tsarnaev, accusato dell'attentato alla maratona di Boston messo a segno quattro mesi fa, è stato riconosciuto grazie all'archivio fotografico informatizzato che già ora l'Fbi usa.

In Italia invece abbiamo la foto dell'assassino della gioielliera di Saronno da giorni, ma non riusciamo a dargli un nome. Per non parlare del paradosso Yara: abbiamo speso una fortuna per raccogliere 15.000 Dna e compararli con quelli del potenziale assassino.

Ma quei profili genetici, in ossequio alle nostre ferree leggi sulla privacy, dovranno essere distrutti. Un killer di ragazzine libero è il prezzo che paghiamo per poter cullare l'illusione che la nostra privacy sia salva mentre diamo tranquillamente in pasto a Facebook le foto dei nostri figli.

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