È un brutto giorno questo in cui a Palazzo Madama viene decisa la cacciata d'un senatore che è il leader del centrodestra italiano. Sarebbe un brutto giorno anche se il senatore espulso fosse stato riconosciuto colpevole di reati infamanti, come tali riconosciuti dalla gente comune. Per un'assemblea legislativa dovrebbe essere straziante la decadenza d'uno dei suoi membri più importanti. Dovremmo assistere, in questa circostanza di tragica solennità, allo spettacolo d'una classe politica che si tormenta per dover incidere, con una misura di gravità estrema, sulla sua carne viva. Invece no. Una maggioranza occasionale, nella quale una componente clownesca si associa alla seriosità settaria, procede verso l'agognata eliminazione di Silvio Berlusconi dalla scena pubblica con l'aria di voler sbrigare un'incombenza burocratica. Come se tutto questo fosse cosa da poco. Come se la sofferenza e la protesta di milioni d'italiani contassero poco in confronto agli aridi dettati della legge.
Fiat lex? Fosse così tutti potremmo inchinarci ai codici. Ma non è così. L'ossequio di certi palazzi romani non è alla legge, è al cavillo, è agli spaccatori del capello in quattro. I quali, muniti di toga, pretendono di innalzare i pregiudizi di parte al ruolo di verità assolute. Una classe politica che non ha molto nerbo, e che è vigorosa solo nello spendere e nell'incassare, non ha esitato ad abdicare un'ennesima volta alla sua dignità, ai suoi diritti, ai suoi doveri. Ha sacrificato tutto questo alla prolissa alluvione cartacea che, nella realtà italiana, rappresenta la giustizia. Molti italiani ritengono che Silvio Berlusconi sia uno statista, molti altri ritengono che non lo sia e che non sia degno di avere il consenso degli elettori. Pareri divergenti e legittimi, da verificare alla prova del voto.
Ma io mi chiedo quanti italiani, compresi tanti che sono di sinistra ma che hanno buon senso, abbiano visto nel giudice Antonio Esposito, nel suo modo di parlare, nel suo modo d'atteggiarsi, una vivente immagine di quell'ideale supremo che è la giustizia. Lo so, nemmeno i politici onorano il loro modo di essere e legittimano i loro ricchi emolumenti. Si arrendessero agli italiani, confessando la loro inadeguatezza, saremmo ben contenti.
Ma si sono arresi agli Esposito, hanno rinunciato a fare o, almeno, a tentar di fare un qualcosa di quanto avevano promesso per issare bandiera bianca di fronte ai faccendieri del giure. L'Italia vera non è il Paese di Cicerone o di Giustiniano, è il Paese di Azzeccagarbugli. Lo sappiamo tutti, lo dichiariamo tutti, inclusi quei «progressisti» che adesso, per comodità polemica, dicono il contrario. Non sto a discutere i meriti e le colpe del Cavaliere. Mi limito a osservare che quando una grande Nazione cui servono modernità, creatività, pragmaticità, si consegna agli Azzeccagarbugli con voluttà estatica bisogna riconoscere che è davvero a mal partito.
Qualcuno potrà osservare - ragionevolmente - che oggi come oggi l'Italia è assillata da problemi economici, e che una vicenda anche importante come la decadenza di Berlusconi passa in seconda linea. Si può discutere di questo. Ma la verità vera è che la decadenza facilona del leader di centrodestra rientra nella logica d'un declino molto voluto o molto favorito dagli ermellini. Con tutti i suoi grandi difetti Berlusconi ha voluto impersonare - non l'ha fatto al meglio, ma era difficile riuscirci - l'idea d'una Italia più giovane, e più intraprendente: se possibile migliore di quella che negli anni Sessanta realizzò il miracolo economico. Con il dominio delle toghe vince un'altra Italia, polverosa, burocratica, accademica. Non dubito della buona volontà di Enrico Letta.
Ma se si fa imprigionare da articoli, commi, postille avrà di progressivo solo la paralisi. Intendiamoci, al momento opportuno la grande addormentata, l'Italia dell'inazione, della Cassazione, tira fuori gli artigli. Per affermare la sua superiorità su ogni altro potere.
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