Il governo snobba le imprese E Squinzi perde la pazienza

Le critiche dirette del leader degli industriali dimostrano che l'apertura di credito a favore del premier sta per scadere: troppe tasse e scarso impegno verso le aziende

Il governo snobba le imprese E Squinzi perde la pazienza

Quando il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, venerdì scorso ha detto: «Anche oggi mi hanno offerto il Canton Ticino per il nuovo head quarter aziendale: se le lungaggini burocratiche mi fanno aspettare 4-5 anni, ci penso», il destinatario del messaggio era uno solo: il premier Matteo Renzi. Al nuovo inquilino di Palazzo Chigi il leader degli imprenditori italiani ha riservato un'altra stilettata asserendo che «alla cena con gli imprenditori di lunedì scorso Merkel è stata molto austera e non ci ha riservato baci e abbracci». In pratica, l'ottimismo renziano è stato sbugiardato in due mosse.

Poiché il disfattismo non è di casa a Viale dell'Astronomia, bisogna cercare di capire perché Squinzi abbia avviato un'escalation nei confronti della presidenza del Consiglio. Occorre, quindi, ricordare come il precedente premier Enrico Letta sia stato praticamente messo alla porta dagli industriali ancor prima che dal suo stesso partito. «O si cambia passo o è meglio votare» sentenziò Squinzi a inizio febbraio, stanco dei tentennamento di un esecutivo che aveva prodotto una legge di Stabilità piena di «porcherie». Dunque, se Renzi ha potuto compiere il gran balzo, un po' di merito va anche alla Confindustria che, da quando è guidata da Squinzi, si è via via differenziata dal sottobosco melmoso delle parti sociali non risparmiando rampogne al governo di turno, a partire dall'ineffabile Mario Monti, criticato sulla riforma del lavoro quando per tutti (sindacati compresi) era ancora un intoccabile.

Eppure Renzi non è stato certo prodigo nei confronti di Confindustria, una volta raggiunta l'ambita meta. Prima il «regalino» ai Comuni sulla Tasi con un aggravio di oltre un miliardo sulle imprese. Poi i 10 miliardi destinati a 10 milioni di dipendenti sotto i 25mila euro di reddito. Infine un piccolo taglio del 10% al cuneo fiscale - la vera priorità di Confindustria - peraltro finanziato con un aumento al 26% dell'aliquota sulle rendite finanziarie. Certo, il Jobs Act piace alle aziende, ma da solo non basta a invertire il ciclo economico. Serve di più, soprattutto occorre un taglio deciso alla spesa pubblica per ridurre le tasse. È quello che ha detto ieri Silvio Berlusconi, nel suo intervento all'Auditorium della Conciliazione. Il leader di Forza Italia è stato il primo a rispondere alle sollecitazioni di Squinzi (seguito poi da tutti i vertici del partito). Un richiamo a Renzi a riprendere in mano il bandolo della matassa: da una parte intervenendo a favore delle imprese e, dall'altro, mostrandosi più deciso in Europa.

Alla fine il messaggio di Squinzi si può tradurre più o meno nel seguente modo: «Cambiare rotta è necessario, altrimenti la permanenza a Palazzo Chigi potrebbe essere più burrascosa e breve del previsto». Il Pd sembra aver capito l'antifona. Ieri il portavoce della segreteria Lorenzo Guerini (fedelissimo di Renzi) si è augurato che «non ci sia una spaccatura: nei prossimi giorni verrà ridisegnata la segreteria e c'è chi avrà il compito di muoversi in quel senso».

Le parole di Mister Mapei, però, hanno mosso le acque anche sul fronte delle parti sociali. Tanto il segretario generale della Cisl, Raffaele Bonanni, quanto la sua omologa della Cgil, Susanna Camusso, hanno alzato i toni.

«Basta con i populismi, bisogna riprendere l'alleanza tra lavoratori e imprese», ha chiosato il primo. «Chi è classe dirigente deve sostenere il Paese», ha commentato la seconda. Lo spiazzamento dei sindacati è palese e riposizionarsi non sarà semplice.

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