Non basta un loden per essere credibili. Prendete Casini, Fini e tutti quelli che si vestono da tecnici per dare un senso al loro ruolo politico. Si sono aggrappati a Monti come se fosse un'assicurazione sulla vita, una coperta di Linus, un portafortuna, un ombrello buono per tutte le stagioni. Passano il tempo a dire che loro sono austeri, misurati, moderati, seri, affidabili, responsabili mettendo in piazza la retorica dell'usato sicuro, magari resettando il contachilometri per spacciarti una nuova verginità a chilometro zero. È da un po' di tempo che sermoneggiano contro il rischio di una campagna elettorale tutta populismo e demagogia. L'indice naturalmente è rivolto contro Berlusconi. Il ritorno del Cav come veleno per la democrazia.
C'è in questo approccio però qualcosa che non torna. È proprio la scelta di sconfiggere l'avversario non sul piano politico, ma con una facile etichetta a smascherare la contraddizione. A ben vedere, infatti, questi signori della mezza misura peccano in realtà di vero populismo. È un populismo sobrio, democristiano, tecnico, ma che gioca molto su un sentimento apocalittico o perlomeno da diluvio universale. Sono populisti quando cominciano a dire che solo Monti può salvare l'Italia dalla morte nera, dalla catastrofe, dal ripudio delle nazioni civili, dalla vendetta di Dio. È come se il rettore bocconiano fosse una sorta di Noè, l'unico uomo giusto in una masnada di peccatori. Sono populisti quando parlano di lui come l'unto dei mercati, lo sciamano salva spread, l'eroe gotico che armato di aglio e scudocrociato tiene a distanza vampiri e non morti.
Sono populisti quando chiedono agli italiani di scarnificare speranze e futuro in nome di una nuova religione chiamata austerity. Chiedono agli altri sacrifici ma ogni volta che tocca a loro trovano una scusa o un cavillo per insabbiare tutto. E se glielo fai notare si arrabbiano. S'indignano. Si offendono. Tanto che ti viene quasi lo scrupolo di dire: magari stiamo esagerando con questa storia della casta. Poi ti distrai un attimo e loro, zac, ci riprovano. Senza vergogna. E poi cominciano a dire che i giornalisti sono tutti bastardi. E si vendicano. Avete presente Rutelli, no? E dicono che è solo qualunquismo, demagogia, populismo. Invece e purtroppo sono fatti. Continuare a negarli è un maldestro tentativo di fare qualunquismo, demagogia, populismo. Perché alla base del populismo c'è il raccontare frottole, balle, vendere un'idea della realtà adulterata per ingannare le masse.
Facciamo qualche esempio? È populismo millantare consensi che non si hanno. È populismo pretendere di governare con il 5 per cento dei voti. È populismo farsi chiamare grande centro quando tutt'al più si è un gruppo sparso di cespugli in cerca di identità. È populismo voler passare per ago della bilancia e crocevia della storia. È populismo spacciare le incursioni della Merkel nella politica italiana come consigli disinteressati. È populismo far credere che la cura Monti stia funzionando, anzi è clinicamente riuscita; tacendo che il paziente è praticamente morto. È populismo sorvolare sugli indici dell'economia reale, quelli che parlano di produttività, disoccupazione, redditi, mobilità sociale, consumi, e qualsiasi cosa abbia a che fare con i soldi in tasca agli individui, e non accorgersi che siamo fermi da vent'anni, che la burocrazia cronica ha ibernato questo Paese, che forse un'intera classe dirigente ha fallito, che i tecnici hanno il buon senso del dottor Stranamore o di un qualsiasi azzeccagarbugli. È populismo desertificare l'economia. È populismo comportarsi come le «teste rotonde» di Cromwell, il nome che il popolo inglese diede ai Puritani. I profeti dell'austerità non si sa perché alla fine finiscono sempre per tagliare teste. Non è populismo invece curare un Paese a botte di tasse. È peggio. È da incoscienti.
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di Vittorio Macioce
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