I rosiconi rottamati del Pd aprono già il fuoco amico

Dalla Finocchiaro a Civati e Fassina, i nemici di Renzi votano la fiducia per disciplina di partito e masticano amaro. È la solita sinistra che perdona tutto tranne il successo

I rosiconi rottamati del Pd aprono già il fuoco amico

Roma - Sono i «renziconi». Quelli che sul nuovo premier un po' ci rosicano. Non oppositori, non avversari, badate: compagni di partito. Che gli votano la fiducia per disciplina interna, ma quel giovane scapestrato che ha rovesciato come un calzino il Pd non lo sopportano proprio. E non fanno molto per nascondere i bruciori di stomaco.

Rosicona istituzionale è la senatrice Anna Finocchiaro, una che non ha mai perdonato a Renzi quella stroncatura «con brucola» ai tempi della di lei candidatura al Quirinale: «Non può diventare presidente chi ha usato la sua scorta come carrello umano per fare la spesa da Ikea», disse allora Irrenzi. Così ieri la senatrice in un'intervista a Repubblica ha definito con sicilianissima sottigliezza il discorso programmatico del premier «anticonformista». E non si tratta di un complimento. «Eravamo come spaesati, stupiti, disorientati». E comunque «io sono antica, giudicherò dai fatti. Di fatto le considerazioni programmatiche non ci sono». Alla faccia dell'endorsement.

Rosicone perdonabile è Stefano «Chi?» Fassina, uno che alla spavalda noncuranza di Renzi nei suoi confronti reagì rinunciando alla poltrona di viceministro all'Economia. Ed ecco oggi i «se» e i «ma» della sua fiducia al nuovo esecutivo: «Il mio voto non è il conferimento di una delega in bianco. Sul piano programmatico vi è la più ampia disponibilità possibile ma valuterò esclusivamente il merito dei provvedimenti». E comunque pace non è fatta: «Il mio voto non abbrevia la lontananza di paradigmi politici con i vertici del partito».

Rosicone barricadero è Pippo Civati, che guida l'opposizione interna al Grande Rottamatore: «Ciao Matteo, stai sbagliando ma ho deciso di votare la fiducia», il suo messaggio dai banchi di Montecitorio ieri. «Anche io ho sognato che la nostra generazione arrivasse fin qui ma con le elezioni e non con una manovra di Palazzo». Rosicone bersaniano Miguel Gotor, che in una nota parla così dello speech renziano di lunedì: «Sorprende per la scarsezza dei contenuti programmatici e per avere assunto in alcuni passaggi i toni di un vero e proprio comizio di piazza». Rosicone sarcastico Francesco Russo, lettiano (e abbiamo detto tutto): «È vero che lui ha parlato più agli italiani fuori dall'aula che all'aula del Senato in sé. Io magari avrei scelto di stare su un format più tradizionale, più adatto all'istituzione, almeno nei primi dieci minuti... Però conta quello che si riesce a fare, non il programma. Il Pd sostiene Renzi: dobbiamo farcela sennò...».

Ecco, sennò. La chiusa di Russo è enciclopedica. Un'enciclopedia medica, dato che riassume il maldipancismo del Pd. Un partito che dopo anni di pensiero debole fatica a metabolizzare il benessere di leadership da cui è improvvisamente stato colpito. Tutti sanno che Renzi è l'ultima chance per una sinistra di governo, eppure nessuno sa rinunciare a quella nostalgia preventiva da grigiore postcomunista. Infatti un altro rosicone, il senatore Paolo Corsini, fa l'anti-social: «Mi permetto di dare sommessamente un consiglio a Matteo Renzi, invece di dedicare gran parte del suo tempo a twittare potrebbe più proficuamente applicarsi a studiare i vari dossier dell'agenda di governo in modo da evitare promesse fondate solo sulla retorica sempre più banale e ormai ritrita del sogno, del futuro, della speranza». E poi c'è anche il rosicone complottista, il senatore Corradino Mineo, già direttore di RaiNews 24: «Renzi è protetto, i giornali sono a suo favore e lo è anche un pezzo di opinione pubblica. Lui si presenta come quello che rottama l'Italia immobile, e forse per qualche mese, ma solo per qualche mese durerà questo clima».

Non rosica ma dubita la leader Cgil Susanna Camusso: «Il programma di governo illustrato da Renzi è utile ma si tratta solo di titoli, per il momento, e non sarebbe ragionevole cercare le risorse solo tagliando la spesa».

Mentre il politiologo Giovanni Sartori a Dagospia va giù duro sul suo concittadino, uomo «sicuramente molto bravo nel parlar svelto e con furbizia, abilissimo nella dichiarazione pubblica», epperò «un incompetente a guida di un governo di incompetenti». Incompetente, forse. Ma di successo. E la sinistra - si sa - tutto perdona fuorché il successo.

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