Roma - La Rivoluzione civile fallisce, e gli italiani lasciano i pm fuori dal Palazzo. La lista degli «Antoni», il guatemalteco Ingroia e il molisano Di Pietro, si ferma ben al di sotto della soglia di sbarramento. L'obiettivo del 4 per cento viene avvicinato solo a Palermo e in «Sicilia 1», ma il risultato nazionale della lista è magro, magrissimo, e non porta in dote nemmeno un parlamentare. Rivoluzione civile gratta l'1,8 dei consensi al Senato, a scrutinio quasi ultimato (95 per cento). E si ferma al 2,2 alla Camera, quando lo spoglio è definitivo all'87 per cento. Tolta Palermo, sede della procura dove Ingroia ha lavorato fino a pochi mesi fa (e dove comunque, proprio per questo motivo, sarebbe stato ineleggibile), il partito delle toghe dunque non incassa né il «bonus» Di Pietro in Molise né l'effetto De Magistris in Campania. Insomma, le prime vittime della «Rivoluzione» sono proprio loro, Antonio Ingroia e Antonio Di Pietro, extraparlamentari loro malgrado. Almeno il resto della compagnia di Rivoluzione italiana - i Verdi di Bonelli, Prc e Comunisti italiani di Ferrero e Diliberto - a guardare il Parlamento in tv s'erano già abituati da un po'.
Il primo a commentare «dal vivo» il flop (dove aver fatto leggere a Ruotolo uno stringato comunicato) è proprio il pm-teorico della trattativa Stato-Mafia, che alle telecamere ha confessato - bontà sua - che «il risultato è al di sotto dell'obiettivo», ma che è arrivato in «condizioni quasi proibitive». Ingroia, come era prevedibile, se l'è presa soprattutto con Bersani, nei cui confronti l'ipotesi di reato formulata dal pm in aspettativa è di aver rifiutato il dialogo con i «rivoluzionari», costringendoli a una «battaglia solitaria». Il segretario democratico, accusato anche d'aver strizzato l'occhio a Monti, è dunque «responsabile di aver consegnato il Paese al centrodestra o all'ingovernabilità». In realtà, a far due conti, gli spiccioli di consenso raccolti da Rivoluzione Italiana, in caso di accordo, non avrebbero cambiato molto nel risultato del Pd, ma forse avrebbero spinto il partito di Bersani a conquistare un paio di regioni in bilico, come Piemonte e Abruzzo. E il «patto», va da sé, avrebbe assicurato a Di Pietro e a Ingroia quello scranno che il primo rimpiange, e il secondo continua a sognare. L'ex pm siciliano ha anche registrato, senza altri commenti, una verità tanto solare quanto triste per lui e per l'ex leader Idv: il voto «di protesta» l'ha intercettato Grillo. Una discreta beffa per una coppia che di intercettazioni - di altro genere, però - era a dir poco esperta.
Con la nave che affonda subito dopo il varo, mostrando forse che l'elettorato ha intravisto sotto la brillante vernice le vecchie insegne dell'Idv, e sul pennone la sbiadita bandiera arcobaleno, l'ultimo appello sembrano le elezioni regionali, i cui scrutini cominciano solo oggi. Di vincere, ovviamente, non se ne parla nemmeno, ma magari Antonio e Tonino sperano di incassare qualche consenso in più passando dalle politiche alle amministrative, per provare a dare un senso al progetto. Anche perché, di tornare in Guatemala, Ingroia non ha alcuna voglia, come ha spiegato lui stesso: «Da domani mi dedicherò al futuro di Rivoluzione civile». Anche perché al presente c'è ben poco da dedicare.
Ma mentre le Nazioni unite e il popolo guatemalteco devono farsi una ragione della scelta di campo di Ingroia, chi stamattina avrà uno spiacevole risveglio è il malcapitato Tonino Di Pietro. L'unico dell'allegra combriccola rivoluzionaria che al suo posticino in Parlamento, sia alla Camera che al Senato, negli ultimi 16 anni da ex magistrato prestato lungamente alla politica s'era affezionato.
Finita con un tonfo la sua parabola anche lui, esodato suo malgrado dalla Casta, forse si metterà al lavoro per rivoluzionare il futuro. Un modo come un altro per non immalinconirsi volgendo lo sguardo ai fasti del passato.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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