L’ultima frontiera: torna il partito di massa

Come è noto spesso il desiderio diventa padrone della ragione. È ciò che vediamo in queste ore leggendo gli editoriali di alcuni grandi opinionisti. C’è chi dice che queste elezioni sono la conclusione definitiva della prima Repubblica (e perché dimenticare Cavour e Garibaldi?) mentre altri si attardano sui difetti, veri o presunti, dei vincitori dimenticando le ragioni politiche e culturali del fallimento dei vinti. Senza presumere di possedere verità rivelate tentiamo di ragionare con il necessario distacco partendo da un dato decisamente nuovo rispetto agli ultimi drammatici quindici anni. Finalmente ritornano in Parlamento due grandi partiti (vedremo poi se sono davvero tali), uno del 38,2% (il Pdl) e l'altro del 33,7% (il Pd). Per chi ha memoria corta, ricordiamo che nel 1979 c’era la Dc con il 38,3% e il Pci con il 30,3%.

Volendo ragionare con le categorie di pensiero di alcuni politologi, queste elezioni non sono, allora, la fine della prima Repubblica, ma al contrario; della seconda e un iniziale ritorno a quel panorama della politica italiana implosa agli inizi degli anni '90. E guarda caso, la stagione della frantumazione finisce con il ritorno al proporzionale e l’abbandono di quel sistema maggioritario fonte di innumerevoli disastri. La seconda riflessione è che il consenso dei due maggiori partiti sono frutto di una decisione squisitamente politica, quella, cioè, di costituire per l’appunto il Pd e il Pdl, e non già, come ci hanno spiegato in questi anni molti apprendisti stregoni, figlio di un artificio della legge elettorale. Sul piano almeno quantitativo, dunque, un ritorno al passato con una differenza, però, non di poco conto.

La Dc e il Pci erano partiti con una cultura politica di riferimento per cui entrambi potevano perdere uomini del calibro di Aldo Moro e di Enrico Berlinguer ma continuavano a essere partiti di massa con la capacità di selezionare, grazie al voto di preferenza, autorevoli gruppi dirigenti. A questo approdo non sono ancora giunti né il Pd né il Pdl (quest’ultimo creato dal carisma di Silvio Berlusconi) e la spiegazione, forse, sta nella loro recente nascita e nella difficoltà di riferirsi a quelle culture politiche che governano oggi i più grandi Paesi europei. Lasciando ad altro momento l’analisi sulle ragioni del fallimento della sinistra italiana, per Silvio Berlusconi la sfida è doppia. Quella del governo del Paese e quella della trasformazione del Pdl da una lista elettorale a un partito, con le sue regole democratiche e i suoi filoni culturali. Questa seconda è una sfida ancora più importante della prima perché significa dare una definitiva stabilità politica alla società italiana allineandosi così ai più grandi Paesi europei nei quali i partiti moderati, pensiamo ai democristiani tedeschi e ai popolari spagnoli, possono perdere i Kohl e gli Aznar ma continuano ad essere partiti di massa, siano essi al governo o all’opposizione.

E qui veniamo alla vittoria della Lega che con il suo 8,1% dimostra che forse il partito nuovo è quello antico. Ci riferiamo, naturalmente, alla forma-partito. La Lega in questi anni ha costruito un partito fatto di militanti, di luoghi fisici in cui si formano gruppi dirigenti che hanno vero consenso locale e di un profilo politico netto che, seppure confonde il radicamento territoriale con un’identità culturale che non c’è ancora, viene pur sempre percepito come qualcosa che c’è e che si tocca con mano. Insomma l’esatto contrario di quella costruzione del pensiero elitario che in questi anni predicava la bontà del cesarismo e del partito senza iscritti. Se il Pdl perde un milione di voti rispetto al 2006 (conteggiando naturalmente tutti quelli raccolti dai partiti confluiti in esso), la Lega ne guadagna 1,3 milioni e diventa nel Veneto addirittura la prima forza.

Di qui, dunque, la sfida del nuovo partito di Berlusconi e di Fini.

Una sfida essenziale perché la guida politica del Paese non può che essere affidata ad una forza nazionale. Nella politica italiana resta il buco nero di una sinistra che non è più quella di ieri ma ancora non sa cosa vuole essere domani. Ma di questo parleremo la prossima volta.

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