Milano - Quando Apple Italia approvò l'ultimo bilancio, all'Agenzia delle entrate non la presero un granché bene. Com'è possibile?, si domandarono. Ovvero, com'era possibile che il colosso di Cupertino versasse al fisco italiano tasse per soli 3 milioni? In che modo spiegare quella cifra irrisoria, a fronte di profitti planetari per oltre 41 miliardi di dollari? La domanda, con tutta evidenza, se la fece anche qualche magistrato. E così, oggi, la Apple è sotto inchiesta con l'accusa di dichiarazione dei redditi fraudolenta, per ora contestata a due manager dell'azienda. Il fascicolo, in mano al procuratore aggiunto milanese Francesco Greco e al pm Adriano Scudieri, ipotizza una maxi frode su un imponibile da un miliardo di euro. Per l'esattezza, un miliardo e 60 milioni svaniti nelle pieghe contabili, attraverso una contrazione artificiosa dell'imponibile pari a 206 milioni per il 2010 e altri 853 per il 2011. Nei giorni scorsi - come ha anticipato ieri il sito web del settimanale l'Espresso - la Guardia di finanza ha fatto visita agli uffici milanesi di Apple, per sequestrare materiale informatico che potrebbe rivelarsi utile alle indagini, mentre i legali dell'azienda - tra cui l'ex Guardasigilli Paola Severino - hanno avuto un primo incontro con i pm. Secondo gli investigatori ci sarebbero «gravi indizi» sulla sottrazione di somme ingenti dall'imposizione Ires (l'imposta sui redditi delle società), e un «meccanismo fraudolento» che ha portato all'apertura del fascicolo da parte della Procura. Il nodo principale, ancora una volta, è l'attenta pianificazione fiscale delle multinazionali. In questo caso, i profitti realizzati in Italia da Apple venivano contabilizzati dalla società di diritto irlandese Apple Sales International, sottoposta a un regime di tassazione minimo. Per i pm, però, il comparto italiano dell'azienda non era solo di supporto a quello irlandese per la vendita e l'assistenza dei prodotti della mela morsicata, ma una vera e propria struttura commerciale operativa e autosufficiente. Che generava profitti in Italia e che Italia - è la tesi degli inquirenti - doveva pagare le tasse. Ma Apple è solo l'ultima delle multinazionali che hanno imparato a dribblare il fisco italiano. La più nota è Google, che ha acceso il dibattito politico su un'ipotetica «Google-tax». Nel 2012, infatti, la controllata Google Italy ha versato all'erario soltanto 1,8 milioni di euro, a fronte di ricavi per 52 milioni e di un utile di 2,5 milioni. Ma il suo fatturato era rappresentato quasi esclusivamente dai servizi prestati alla filiale irlandese Google Ireland, che ha incassato tutti i proventi pubblicitari del colosso del web (qualcosa come 50 miliardi di dollari nel 2012, e oltre 10 di utile). E non diversamente hanno fatto Amazon e Facebook. Entrambe le multinazionali dispongono di una struttura societaria in base alla quale la filiale italiana non fattura la pubblicità raccolta o le vendite realizzate nel nostro Paese, ma registra come ricavi i servizi prestati a un'altra società del gruppo, la cui sede si trova in uno Stato a fiscalità più vantaggiosa: ancora una volta l'Irlanda - per Facebook - e il Lussemburgo per Amazon.
E così nel 2012, il gigante dell'e-commerce ha pagato al fisco italiano circa 950mila euro, mentre la miliardaria creatura di Mark Zuckerberg la miseria di 132mila euro. Praticamente, quanto una piccola impresa a conduzione familiare.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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