La lingua non si multa (neppure se è ideologica)

Politica e "genere": la lingua non si basa sulle imposizioni, neppure quelle ideologiche, ma sull'uso

La lingua non si multa (neppure se è ideologica)
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Le radici sono importanti. Ma le desinenze di più.

Mettiamo subito le mani avanti: noi non useremmo mai parole come «sindaca», «questora», «avvocatessa». Figurati «architetta» o «rettrice». Quando le troviamo, non andiamo neppure avanti nella lettura. Del resto è da almeno un paio d'anni, da quando è iniziata la moda, che quando riceviamo un comunicato che si rivolge a noi con espressioni tipo «Cari tutti e care tutte», «Car* tutt*», o con la schwa, la «u» o la «e» rovesciata, rispondiamo cortesemente di toglierci dalla mailing list.

Come spiega l'Accademia della Crusca, e come negano ormai solo pochi fanatici, l'uso di «tutti» (maschile non marcato) per includere sia maschi sia femmine è una convenzione generale che risale alle origini della lingua italiana ed è priva di qualsiasi implicazione sessista. L'uso del maschile è economico, efficace, condiviso. Cambiarlo sarebbe costoso (dire o scrivere «Cari tutti e care tutte» implica maggior uso di tempo e di spazio, mentre la lingua sceglie sempre ciò che è più vantaggioso), poco chiaro e non sarebbe una condivisione ma una imposizione. Anzi, è una sorta di dittatura di una minoranza intollerante rispetto a una maggioranza indifferente.

Le guerre per la lingua iniziano sempre con le migliori intenzioni (il tanto inseguito mito dell'inclusività) e poi finiscono nell'estremismo. Qualche mese fa è stata l'Università di Trento a varare un nuovo regolamento di ateneo secondo cui tutte le cariche devono essere indicate al femminile «la presidente», «la rettrice», «la segretaria», «le professoresse», «la candidata», «la decana» - anche se le persone che rivestono quei ruoli sono maschi. Oggi invece - passando da una follia all'altra - è la Lega a voler vietare l'uso scritto, negli atti pubblici, di parole come «sindaca», «dottora», «giudichessa», «questora», «avvocatessa». Il senatore leghista Manfredi Potente ha infatti presentato un disegno di legge che ha l'obiettivo di tutelare la lingua italiana rispetto alle differenze di genere. Insomma, secondo il partito di Salvini l'uso del femminile va abolito per legge nei documenti ufficiali. Che è un errore marchiano, uguale seppure in senso contrario a quello dell'Università di Trento. E cioè pensare che si possa cambiare la lingua con un'imposizione esterna: un regolamento, un uso martellante di comunicati, una legge (qui poi c'è l'aggravante della sanzione pecuniaria: per chi non si adegua è prevista una multa fino a 5mila euro).

La lingua non si addomestica, non si educa, non si addolcisce, non si impone e non si femminilizza. La lingua, per fortuna, e da sempre, fa tutto da sola. Con un unico obiettivo: comunicare nella maniera più veloce e efficace possibile. A dare forma alla lingua sono semplici principi di economia e comodità, non violenti retropensieri ideologici.

E ora un consiglio al senatore leghista. Per non brutalizzare l'italiano non serve vietare alcune parole, basta non usarle. Quelle sbagliate moriranno da sole.

E un consiglio

ai fautori della lingua al femminile: per arricchire l'italiano non serve imporre alcune parole, basta usarle. Quelle giuste sopravviveranno da sole.

E ciò dovrebbe essere chiaro a tutti. Intesi come maschi e come femmine.

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