Quella processione muta di macchine scure avanti e indietro sullo stesso tragitto da Arcore al San Raffaele per oltre un mese e quelle facce imperscrutabili dietro agli occhiali neri: i lineamenti un po’ più tesi e scavati ogni giorno e il silenzio. Troppo silenzio, lo senti subito quel troppo è lucido come una lama.
Con tutto intorno che si ferma e allo stesso tempo corre disperato.
Ciò che ha contraddistinto l’ultimo mese e mezzo di vita di Silvio Berlusconi sono state anche la compostezza e la discrezione della sua famiglia. Una bella lezione per quanti lo hanno accusato, in vita, di essere stato uno degli uomini più chiassosi del pianeta. Chi si declina in un patrimonio genetico e affettivo così, non può essere inelegante. E loro, l’entourage dolente di Silvio, non avrebbe mai potuto fingere nulla in simili circostanze: il dolore fa leggere le persone.
I figli Marina, Pier Silvio, Barbara, Eleonora e Luigi, il fratello Paolo, le ex mogli Elvira Dall’Oglio e Veronica Lario, la compagna Marta Fascina e Fedele Confalonieri, che rientra a pieno titolo tra i familiari del Cavaliere, lo hanno rappresentato, accudito e reso orgoglioso fino alla fine. Visite continue tutti i giorni più volte al giorno e quell’ultima corsa disperata, lunedì mattina dopo la telefonata di Luigi che era già in ospedale: «Correte, papà sta morendo.
Non c’è più niente da fare». Man mano che le condizioni peggioravano, la famiglia aveva scelto di affidare al professor Alberto Zangrillo l’onere di informare all’esterno. A lui la cernita delle parole per i bollettini medici quotidiani, con quei termini prudenti ma rassicuranti al punto giusto, tanto da ottenere riserbo. E loro al centro ma in disparte avanti e indietro dal combattente: ordinati, pettinati, truccati e ben vestiti. Intinti nel dolore peggiore e nella fatica di quell’angoscioso via vai ma dignitosissimi.
Anche questo racconta di regole ed educazione introiettate da sempre, non appiccicate in fretta a favore di telecamere e fotografi. Non c’è stato niente di arrogante in quel treno di Berlusconi e affini che ha affollato l’ospedale di Segrate. C’è anzi una lezione lunga quarantacinque giorni e tre generazioni. Fino a quella processione, lunedì in tarda mattinata, in direzione opposta: dal San Raffaele ad Arcore, per l’ultima volta. Riportandosi in qualche modo a casa Silvio. Le quattro macchine scure e il camioncino su cui viaggiava l’ex premier. L’ingresso dai cancelli di villa San Martino che si sono richiusi dietro di loro e alla scelta di una camera ardente allestita a casa, per parenti e amici stretti. E poi il via vai in quella immensa casa irrimediabilmente vuota, a occuparsi di lui come se fosse ancora lì, a organizzare, stringere mani, abbracciare, scegliere, decidere, a frastornarsi per non sentire il frastuono peggiore che è sempre quello dell’assenza.
Quell’interminabile, maledetta giornata che ha diviso le vite di tutti
loro tra «prima» e «poi».Fino a lunedì notte, forse la prima in cui avranno dormito, storditi, dopo tanto tempo. Lunedì notte, quando ormai non avevano più paura di niente perché ciò che li terrorizzava era già successo.
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