Marini, il presidente delle larghe intese

Oggi i primi scrutini, l'ex Cisl indicato da Bersani e Berlusconi: dovrà spuntarla nelle votazioni iniziali per schivare altre trappole. Sarà il garante di un esecutivo di unità nazionale

Marini, il presidente delle larghe intese

Roma - Nel novembre 2011 si puntò su Mario Monti, almeno per Palazzo Chigi. Ora, complice la stagione primaverile, ci si sposta su Franco Marini. È lui il nome in pole position per il Quirinale, quello sul quale Silvio Berlusconi e Pier Luigi Bersani decidono di scommettere per arrivare a un accordo preliminare e condiviso. Un'intesa che, se confermata dal suffragio d'aula, potrebbe fare schizzare verso l'alto le quotazioni di un governo di larghe intese e battezzare la nascita di una stagione di pacificazione nazionale, mettendo fuori gioco gli outsider come Matteo Renzi.

Come sempre la giornata si sviluppa in maniera confusa. La ricerca dell'inquilino del Quirinale è un mosaico in costante divenire, un identikit a cui i testimoni cambiano continuamente fattezze, lineamenti e connotati. Così la giornata che prelude all'inizio delle operazioni di voto - con la prima «chiama» fissata per questa mattina alle 10 - va avanti tra strappi e tentazioni, ballon d'essai e polpette avvelenate, nomi civetta e candidati nascosti.

Lo strappo decisivo di Franco Marini dal gruppone dei corridori arriva nel primo pomeriggio quando Silvio Berlusconi e Pier Luigi Bersani si sentono all'ora del caffè. I due leader sciorinano numeri e nomi davanti a due tazzine di caffè. Il quartier generale del Nazareno smentisce («Nessuna rosa di nomi da Bersani a Berlusconi») per non cadere nella classica trappola dell'accusa di inciucio. Ma la rosa c'è e comprende Giuliano Amato, Sergio Mattarella, Massimo D'Alema, Anna Finocchiaro e lo stesso Marini.

C'è chi dice che il nome più gradito dalle parti del Pdl fosse quello di Amato ma che il veto della Lega sia stato insormontabile. Fatto sta che alla fine prevale l'ex segretario generale della Cisl. Una scelta che va a premiare una personalità moderata, non troppo connotata a sinistra, rispettosa di quel principio non scritto di alternanza tra un presidente della Repubblica laico e un uomo gradito a Santa Romana Chiesa. Ora Marini dovrà cercare di farcela nelle prime votazioni per non incorrere, poi, successivamente in trappole e giochi di prestigio orchestrati dagli esclusi. Sì, perché il film della giornata si conclude in serata con una sorta di psicodramma interno alla sinistra con i renziani che si dissociano ufficialmente dalla scelta (per Renzi si tratterebbe di «un dispetto al Paese») e Marianna Madia che aggiunge: «Non saranno solo i renziani a non votarlo». Il segretario del Pd, però, non si piega. Definisce quella di Marini una «candidatura forte, in grado di realizzare le maggiori convergenze. È una persona limpida, generosa, capace di dialogo, tra i costruttori del campo del centrosinistra».

Bersani sa che con Marini potrà raccogliere i voti del Pdl e tuttavia dovrà gestire la partita nella consapevolezza di poter perdere per strada oltre ai cinquanta parlamentari renziani, anche i voti di Vendola (35 alla Camera e 7 al Senato) così come restano incerti i dalemiani. Lo schema del «patto del caffè» prevede a cascata altre convergenze. L'opzione principale è quella di un accordo organico. Quindi un governo di pacificazione nazionale che dimostri che il Paese è maturo per uscire dal recinto dell'odio e dei veti incrociati.

Quella di riserva prevede, invece, il varo del governo Bersani con il voto compatto dalla Lega (in cambio di un nome «gradito» al dicastero che si occuperà di autonomie e federalismo), di Monti e una sorta di appoggio esterno del Pdl. Una alchimia basata sulla realpolitik che avrebbe, ovviamente, un respiro di più breve durata e un maggiore potenziale esplosivo.

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