«Stavolta saranno gli elettori dell'Unione a scegliere il presidente della Commissione». Era l'ultima suadente promessa di questi mesi. Un impegno strombazzato ai quattro venti dai piazzisti dell'euro voto per regalare qualche briciolo di motivazione agli sfiduciati elettori del Parlamento di Strasburgo. E illuderli di poter designare una sorta di «premier» europeo. Ma era la solita balla. Anche stavolta il nome del presidente della Commissione di Bruxelles non verrà deciso dal responso delle urne, ma da un accordo sottobanco tra i governi dei vari 28 paesi. Così vuole e pretende l'unico vero «dominus» d'Europa, ovvero «frau» Angela Merkel.
Il luccicante specchietto per allodole usato per adescare e plagiare 350 milioni di potenziali elettori europei (ma vota molto meno della metà) era saltato fuori dal cilindro magico del Trattato di Lisbona. L'articolo 17 del trattato in vigore dal dicembre 2009 prevede che la scelta del presidente della Commissione, proposto dal Consiglio Europeo (il consesso dei capi di governo o di Stato dei 28 paesi membri) e votato dal Parlamento Europeo, avvenga tenendo conto dei risultati delle elezioni. A dar retta a quella promessa da marinai il successore di José Manuel Barroso doveva venir annunciato subito dopo lo scrutinio del 26 maggio. E doveva inevitabilmente corrispondere al nome di uno dei candidati presentati dalle due coalizioni in lizza per la maggioranza relativa ovvero l'ex premier lussemburghese Jean Claude Junker, capofila del Partito popolare europeo, e Martin Schulz, il «kapò» portabandiera della sinistra europea.
La signora Merkel ci ha già fatto sapere che non sarà così. Sabato mattina, dopo aver costretto il presidente francese Francois Hollande a 36 ore di colloqui forzati tra le brume baltiche di Stralsund, «frau» Angela ha annunciato il suo diktat. «Ci vorranno di sicuro almeno un paio di settimane prima che si possa arrivare alle decisioni necessarie» - ha detto la «cancelliera». E il presidente francese, sostenitore, fino a poche ora prima, della soluzione prospettata dal Trattato di Lisbona, ha fatto buon viso a cattivo gioco ratificandone la volontà.
Il voto europeo, a questo punto, si riduce alla solita inutile farsa. Le scelte degli elettori continueranno a contare zero sia che vinca il candidato dei popolari, sia che trionfi quello delle sinistre. E ancor meno conteranno le promesse fatte in campagna elettorale dai due candidati fantocci usati per raccogliere consensi. Una volta chiuse le urne quei due candidati torneranno a esser semplici marionette, prigioniere del complesso intreccio di fili manovrato dalla «grande burattinaia» di Berlino. Una «grande burattinaia» che ha ottime ragioni per trasformare le istituzioni e il Parlamento di Bruxelles nel cortile di casa propria. Il kapò Martin Schulz che propone a nome della sinistra europea politiche economiche meno rigide rischia infatti non solo di mettere a rischio le austere ricette economiche portate avanti dalla cancelliera, ma anche di erodere i complessi equilibri della «Große Koalition» tedesca.
Annunciando di voler ricorrere al consueto mercato delle vacche tra capi di governo europei per designare il futuro presidente della Commissione la Merkel fa intendere di esser pronta a pretendere un sostituto al piccolo «kapò» in caso di vittoria (annunciata) della sinistra europea. Consapevole, inoltre, del possibile effetto shock generato da una possibile affermazione su larga scala dei movimenti «euroscettici» la cancelliera si riserva la possibilità di rimescolare le carte anche in caso di vittoria dei Popolari.
A farne le spese sarebbe in quel caso l'anonimo Jean Claude Juncker destinato a venir sostituito con un volto più conosciuto e più adatto a risollevar le sorti di un'Unione sempre più traballante e meno credibile. Un'Unione pronta, a questo punto, a traslocare direttamente a Berlino.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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