Monti tra bis e addio: ecco la road map della politica italiana

Da oggi col voto sulla giustizia al Consiglio europeo del 28 giugno, due settimane decisive per le sorti dell’esecutivo. Tra crisi dell’euro e mosse dei partiti sulle riforme

Monti tra bis e addio:  ecco la road map  della politica italiana

«E mai che mi sia venuto in mente di essere più ubriaco di voi» cantava Fabrizio De André. A Mario Monti invece sì, è venuto in mente di tirare la corda più dei partiti che ogni due per tre minacciano di fargli lo sgambetto. Loro, i galeotti della «strana maggioranza» ormai divenuta gabbia, in fondo non possono liberarsi dalle catene senza passare alla storia come gli irresponsabili che hanno mandato a casa l’oligarchia tecnica chiamata a salvare il Paese dal baratro e dallo spread. Ma il Professore, la corda al collo di lorsignori può stringerla eccome. Forte, paradossalmente, proprio di quella debolezza economica che non accenna a diminuire, anzi. Se il suo governo cadesse, il premier potrebbe comunque addossare la colpa ai litigiosi Pd e Pdl, all’urlo di: non mi hanno lasciato governare. Magari proponendo un Monti bis con una squadra più politica, il che gli consentirebbe di liberarsi in un sol colpo dei suoi tecnici, rivelatisi fin troppo spesso pasticcioni. Il tutto proprio a ottobre, quando Pd e Pdl saranno chiamati a scannarsi alle primarie. Non a caso il Prof ha forzato la mano (e la Costituzione) su una partita come la Rai, che se non è una priorità per il Paese, lo è però per i partiti, che sulle nomine sono pronti al braccio di ferro più che, tanto per dire, sul fiscal compact.

Per capire se trattasi di fantapolitica o di mossa benedetta da Re Giorgio Napolitano, vero deus ex machina del presente e del futuro prossimo, non bisognerà aspettare molto. La road map è già segnata da qui alla fine di giugno, e promette due settimane al cardiopalma. Il ragionamento che si fa a Palazzo Chigi è che, con l’euro a rischio e la Spagna appena declassata, nessuno si assumerà la responsabilità di portare il Paese al voto anticipato. E però, c’è un però. Il 28 e 29 giugno l’Italia è attesa al Consiglio europeo di Bruxelles, vertice decisivo per i destini della moneta unica. Il premier vuole arrivarci con le spalle coperte, sostenuto dal Parlamento e dalla società civile. Ma tra fughe in avanti di sottosegretari come Antonio Catricalà, pasticci come quello di Elsa Fornero sui numeri degli esodati, grida di dolore dei partiti, rata dell’Imu in corso e aumento dell’Iva in arrivo, Monti rischia di essere sempre più debole, abbandonato in Aula ma anche fuori, i sondaggi che danno la sua immagine ben più che appannata parlano da soli. In questo clima lo show down è dietro l’angolo un giorno sì e l’altro pure.

Oggi c’è il primo ostacolo alla Camera, con il disegno di legge anticorruzione. Il governo ha posto ben tre voti di fiducia, uno per ogni punto critico: l’articolo 10 sull’incandidabilità dei condannati, l’articolo 13 con le norme penali su nuovi reati come il traffico di influenze, l’articolo 14 sulla corruzione tra privati. È una partita delicata, non fosse altro che la prima a lanciare il guanto di sfida è stata Paola Severino: «Se non otteniamo la fiducia, il governo torna a casa, ma sono serena anche in questo caso» ha detto il ministro della Giustizia.

Ma è al Senato il vero snodo. Lì, è arrivata ieri e si voterà forse da domani la riforma costituzionale. S’ha da fare a detta di tutti, sennò poi vaglielo a spiegare agli italiani che la politica già priva di credibilità non è riuscita a muovere un dito per recuperare. Però la grande riforma s’intreccia con lo psicodramma della legge elettorale. Il Pdl ha presentato gli emendamenti per far passare il semipresidenzialismo, legando la questione alla modifica del Porcellum e avvertendo che se il Pd non voterà il modello francese, pregiudicherà l’approvazione del sistema a doppio turno. Peccato che i democratici non ne vogliano sapere. Il percorso a ostacoli in fondo ruota attorno a questo asse. Da settimane Pd e Pdl sono in fibrillazione, i falchi a chiedere di far cadere il governo, le colombe sempre più dubbiose. E se domandi a un parlamentare di qualsiasi colore come preveda di posizionarsi in Aula, la risposta, a parte quella di rito sulle «esigenze dei nostri elettori», è semplicemente: «Tutto dipende dalla legge elettorale». Del resto, la politica tutta è in attesa della riforma: Montezemolo ai box, Sinistra e Idv incerte sulle alleanze, Grillo che intanto sbaraglia nei sondaggi, gli stessi Pd e Pdl divisi fra chi guarda ai centristi e chi a una corsa in solitaria e più radicalizzata.

Una fase nebulosa che pone un’incognita in più sulle tappe in Parlamento. Superato lo step anticorruzione, il gioco dell’oca prosegue col decreto Sviluppo, che potrebbe essere pronto venerdì.

Qui la partita è soprattutto interna al governo, visto lo scontro frontale fra il ministro Corrado Passera e il sottosegretario al Tesoro Vittorio Grilli, il secondo a dire che non ci sono soldi e il primo a replicare che basterebbe un po’ di buona volontà. L’ultimo scoglio è la riforma del lavoro, che dovrebbe arrivare in Aula fra il 2 e il 7 luglio. Ma a quel punto, probabilmente, il Consiglio europeo avrà già deciso anche le sorti di Mr Monti.

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