Al peggio non c’è limite. E qui siamo oltre l’immaginabile. Ventidue anni per arrivare a un verdetto di primo grado nel processo celebrato al tribunale di Napoli contro alcuni camorristi. Poi altri tre anni e mezzo per leggere finalmente le motivazioni che sono state depositate dopo 1310 giorni contro i 90 canonici.
È il dibattimento dei record, tutti negativi, quello contro un grappolo di presunti affiliati al clan Stabile, dunque un segmento della grande criminalità campana. Attenzione: non si trattava di un maxi processo con centinaia di imputati, come quelli storici per Cosa nostra, ma di un procedimento circoscritto a 19 persone, a processo per associazione a delinquere, un tentato omicidio, armi, droga. Reati gravi, ma nella storia giudiziaria del Paese si è giudicato ben altro e invece qui è accaduto di tutto. Con risultati catastrofici per la giustizia.
Tanto per cominciare, si sono separati i fatti di sangue, dirottati davanti alla corte d’assise; i tribunale è andato avanti, in teoria alleggerito, in realtà appesantito da un fardello che l’ha schiacciato. Difficile raccapezzarsi in questo guazzabuglio, ma due sono i problemi principali che hanno afflitto i giudici: i continui cambi di collegio che hanno provocato continue interruzioni dell’istruttoria, e i rinvii, seriali, delle udienze. Insomma, il calendario si è trasformato in un vergognoso gioco dell’oca che ha portato giudici e avvocati oltre ogni ragionevole decenza. Il 26 maggio 2020, finalmente, ecco la sentenza. Undici condanne e otto assoluzioni. Le pene colpiscono alcuni appartenenti al clan Stabile, e oscillano fra i 12 e i 26 anni di carcere.
Naturalmente, una parte dei capi d’imputazione è finita in prescrizione, ma ormai è andata così. Le motivazioni sono previste a distanza di tre mesi, ma la realtà supera qualunque fiction: dopo 22 anni si dovrebbe correre a perdifiato, se non altro per non sprofondare. Ma ecco, per ragioni francamente incomprensibili, si inceppa tutto di nuovo. E sul processo fantasma, finito ma non concluso, scende un velo di silenzio.
Tutti aspettano le motivazioni che non ci sono, mentre maturano altre prescrizioni. E ci si chiede con sgomento in che paese viviamo e che paese sarebbe il nostro se fosse rimasta la legge voluta dai 5 Stelle e poi per fortuna cancellata, sulla prescrizione senza limite. Si sarebbe rimasti imputati a vita.
Nei giorni scorsi, il presidente del tribunale di Napoli, mortificato, batte un colpo, anzi due: una preghiera ai giudici perché diano notizie della loro esistenza e, se possibile, consegnino il fatidico testo; poi una segnalazione alla procura generale della cassazione perché valuti il caso. Non la lunghezza inenarrabile del processo, ma quella ancora più incredibile della stesura delle motivazioni, con un tempo di redazione che può competere con I promessi sposi e I fratelli Karamazov.
Potrebbe pure partire un procedimento disciplinare contro i magistrati che hanno traccheggiato così a lungo, perché un ritardo così macroscopico e sfacciato non può rimanere senza una spiegazione plausibile e, in assenza di una giustificazione accettabile, senza una punizione adeguata. Si vedrà. Secondo l’avvocato Gennaro De Falco, difensore di tre degli imputati assolti, «anche sulle condanne è scesa la spada di Damocle della prescrizione», insomma in questa catastrofe potrebbe non salvarsi nulla.
E ancora, si fa notare che sarà difficile notificare le motivazioni, finalmente pubblicate il 27 dicembre: alcuni degli avvocati sono morti, come Mosè sulla soglia della Terra promessa, prima di avere fra le mani quelle pagine. Un bel biglietto da visita per chi ha scommesso sul Pnrr e su una giustizia più celere ed efficiente.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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