Alla fine sono tutti liberali, anche quelli che per decenni sono stati comunisti. Ma non c'è alcun pentimento. Anzi, i diretti interessati addirittura parlano di coerenza. Uno dei casi più vistosi è quello del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Ieri è stata trasmessa la lunga video intervista che gli ha fatto Eugenio Scalfari. Il fondatore di Repubblica, per mettere a suo agio il Capo dello Stato, ha citato una frase che Napolitano pronunciò a Firenze, al Gabinetto Vieusseux, nel 1995: "Perché non possiamo non dirci liberali". Una parafrasi evidente di Benedetto Croce (che da ateo disse "non possiamo non dirci cristiani").
Ma su cosa si sarebbe basato il liberalismo di Napolitano? Lui prova a spiegarlo così: "Sui valori del liberalismo si fonda qualsiasi prospettiva di liberazione di una società". Il presidente "comunista e liberale" si racconta e racconta molti particolari della storia del Pci, sforzandosi di dare splendore e onore al partito nel cui ha militato per oltre mezzo secolo. Un partito che, come gli altri, ha vissuto di luci e ombre, ma che, non possiamo negarlo, si è contraddistinto per il cordone ombelicale strettissimo con la "casa madre" dei comunisti, l'Unione sovietica. All'indomani dell'invasione dei carri armati sovietici a Budapest (1956) mentre Antonio Giolitti e altri dirigenti di primo piano del Pci lasciarono il partito e "l'Unità" bollava come "teppisti" gli operai e gli studenti insorti, il "liberale" Napolitano elogiava l'azione dei sovietici. Secondo lui Mosca con i carri armati e la repressione avrebbe contribuito a rafforzare la "pace nel mondo".
Soffermandosi con rispetto sulla figura di Togliatti, Napolitano osserva che il leader del Pci "aveva profondamente un’idea di partito nazionale che avesse un suo profilo autonomo anche in Italia, ma non si distaccò mai dalla guida sovietica che poi, fino alla sua morte, fu la guida di Stalin. Quindi lui era dentro quell’universo con le sue degenerazioni". Una parziale anche se tardiva autocritica. Il Capo dello Stato ama ricordare un episodio tra il "compagno Ercoli" (nome di battaglia di Togliatti) e Stalin. Togliatti "era convalescente e si trovava in Russia, dove ricevette a sorpresa una visita di Stalin che gli chiese di trasferirsi a Mosca per dirigere il Cominform, l’Ufficio di Informazione dei Partiti Comunisti. Ma non ne voleva sapere. Aveva assaporato - ricorda il presidente - il gusto della libertà e voleva vivere in Italia". E così Togliatti ebbe la "buona idea" di chiedere un parere alla direzione del Pci, che votò a favore: "Se ce lo chiede Stalin lo dobbiamo fare", fu il ragionamento. Ma quella volta Togliatti, ricorda Napolitano con orgoglio, disse no a Stalin.
Ma perché mai Napolitano, giovane e brillante studente iscritto, come tanti (lo stesso Scalfari) ai Gruppi universitari fascisti, decise di iscriversi al Pci? La decisione, dice lui, non arrivò per convinzione ideologica, "piuttosto da un impulso morale. Napoli era una città stravolta dalla guerra, dalla occupazione, dalla miseria e dal degrado. Qual era il partito che aveva combattuto contro il fascismo e che ora si schierava per la liberazione del resto d'Italia?". Ma bisognerebbe ricordare a Napolitano che a lottare contro il fascismo non furono solo i comunisti. A Napoli come nel resto d'Italia.
Poi, a soli 28 anni, nel 1953, l'ingresso in Parlamento e l'inizio di una lunga, lunghissima
carriera politica. Fino a diventare, per due volte, cosa mai accaduta nella storia, Presidente della Repubblica. Il "comunista liberale" (come se le due cose potessero stare insieme tranquillamente) che divenne Re. Re Giorgio.
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