L' Italia è avvolta da un rogo purificatore che incenerisce realtà industriali di estrema importanza, che cancella migliaia o decine di migliaia di posti di lavoro, che aggrava una crisi economica di per se stessa terribile. La legge deve trionfare. Fiat iustitia et pereat mundus («sia fatta giustizia e perisca pure il mondo») recitano gli assertori d'un rigore i cui principi stanno nell'alto dei cieli, e ignorano le umane esperienze, contingenze, emergenze. Sul filo di questa logica savonaroliana chiunque non si associ alla crociata delle toghe è un fautore della corruzione e un complice dei corrotti.
Credo non si possa negare che la corruzione è una piaga nazionale, e che il combatterla è un dovere dell'autorità (che dal combattimento esce di regola sconfitta). Ma lo zelo redentore segna ancor più marcatamente di quanto sia sempre avvenuto il divorzio del formalismo giudiziario dai sentimenti della gente comune. La quale disprezza il vorticare di mazzette e mance che caratterizza tanta parte della vita italiana. Ma, dotata di buonsenso, non confonde la pulizia con il masochismo.
Ammesse la buona fede e magari anche le buone intenzioni dei magistrati che sventrano implacabilmente colossi economici nel nome dei codici - non voglio pensare che siano mossi da altre motivazioni - resta la dissennatezza delle loro decisioni e il danno immane che esse producono. Prendiamo il caso Finmeccanica. Non so quanto vi sia di vero e di dimostrabile nelle accuse rivolte a Giuseppe Orsi e nelle ipotesi su retroscena politici dell'affaire. Ma quando le toghe si avventano contro la «corruzione internazionale» il loro stupore indignato somiglia molto a quello d'una ingenua Vispa Teresa. Non è necessario frequentare le massime sfere della finanza e dell'industria per sapere che determinati affari nascono, si svolgono, si concludono sotto il segno del bakscisc (la mancia in egiziano, ndr), le commesse derivano dalle elargizioni a intermediari ed emissari.
Si vuole, per scrupolo virtuoso, rinunciare a questi ferri del mestiere? Lo si faccia ma rendendosi conto delle conseguenze per il Paese, e informandone con chiarezza il popolo. Nel dna statunitense c'è una componente moralistica e puritana, ma l'ho vista molto affievolita quando gli Usa ottenevano via libera alle loro multinazionali dai dittatorelli centroamericani.
Prendiamo il caso Ilva. Non voglio negare, mancandomi argomenti per dimostrare il contrario, che l'Ilva abbia emanato esalazioni nocive (mi chiedo tuttavia se i funzionari pubblici destinati a Taranto e lieti di andarci, magistrati compresi, siano tutti animati da propositi suicidi). Certo è che questa situazione incresciosa si trascinava da decenni, e che l'aver preteso immediatezza cieca, pronta e assoluta nel bloccare repentinamente la produzione - e perfino l'utilizzo di materiale già pronto per la consegna - denota una mentalità da Torquemada in chiave moderna.
I «palazzacci» dove si celebrano i riti del giure sembrano incapaci di prendere in considerazione le debolezze degli individui e della società. Salvo poi offrire, proprio in quei «palazzacci» lo spettacolo di disfunzioni e negligenze che in qualsiasi istituzione privata non sarebbero tollerate. M'è capitato di ricordare recentemente che la giustizia italiana pretende d'ispirarsi a modelli di suprema altezza e purezza, la giustizia Usa invece viene dal basso, mira ad essere l'espressione di ciò che pensa e sente la comunità cui appartiene. Qui da noi nessun cittadino privo di toga ma provvisto di saggezza avrebbe adottato, se fosse toccato a lui di provvedere, le misure devastanti che la magistratura ha ritenute necessarie per la Finmeccanica, per l'Ilva.
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