Lesclusione dalle primarie del Partito democratico di due esponenti di primo piano della maggioranza e del governo di centro-sinistra, Marco Pannella, leader carismatico di matrice liberale, e Antonio Di Pietro, ministro della Repubblica (a cui si somma il ritiro di Furio Colombo, vittima di un caso di grottesca burocrazia), è l'ultimo sintomo che conferma il carattere chiuso e rachitico, per non usare i più forti termini di «illiberale» e «a-democratico», che la nuova formazione sta assumendo in vista della sua formale costituzione.
Si è già discusso tra filo-democratici e anti-democratici sul carattere posticcio delle primarie che, per come sono lì concepite, svolgono tutte le possibili funzioni meno quella essenziale per cui sono nate in America, vale a dire la scelta effettiva dei candidati di partito da affidarsi direttamente agli elettori sottraendole alla cooptazione degli apparati. Basta ricordare che il movimento per le primarie si diffuse in quasi tutti gli Stati americani negli anni Settanta-Ottanta proprio come rivolta contro le manipolazioni delle oligarchie partitiche.
Qui, nel costituendo partito Democratico sta avvenendo esattamente l'opposto. Prima in ambiti ristretti si sceglie colui che deve essere il leader di partito, nel caso specifico Walter Veltroni per la sua immagine rassicurante rispetto alle varie componenti organizzate, e poi si sollecita il concorso di altri esponenti per fare corona al designato, a condizione però che facciano da specchietto per allargare il consenso senza dare fastidio al conformismo burocratico di tutta l'operazione.
Ho il massimo rispetto per Rosy Bindi e Enrico Letta, i due volti designati a catturare l'opinione cattolico-progressista e moderato-riformista del treno democratico, ma sarebbe fantasioso chiamare competizione politica effettiva un pugno di candidature compiacenti che nel gergo dello spettacolo sarebbero chiamate maschere di una «sceneggiata».
A rompere questo idilliaco gioco delle cosiddette «primarie», in cui a ciascun concorrente è stato assegnato una parte preordinata ad maiorem Veltronii gloriam, è sopraggiunta improvvisa e inaspettata l'irruzione di Marco Pannella e, in misura diversa, la discesa in campo del ministro Di Pietro con il permesso di Prodi. Senza entrare nelle intenzioni di Pannella, insondabili e inafferrabili per i profani, non c'è dubbio che una scorreria del leader radicale anche solo nel dibattito del costituendo Partito democratico avrebbe portato un elemento di crisi, per alcuni positiva per altri negativa, perché avrebbe turbato gli equilibri ingessati che ad oggi costituiscono lo scheletro del (nuovo) partito.
Sarebbero stati messi in questione, non dico sconvolti, i cardini delle vecchie (e peggiori) tradizioni democristiana e comunista che tuttora sovrastano il Partito democratico. Sarebbe stata introdotta una ventata di liberalismo politico, economico e sociale che difficilmente sarebbe stata sopportata, neppure nella discussione, da una classe dirigente tuttora ispirata dalle due principali subculture illiberali del nostro Paese. Sarebbero pure apparsi all'orizzonte pulsioni libertarie in termini di etica pubblica e morale personale che avrebbero dissestato i faticosi equilibri raggiunti con pasticciati compromessi o con eloquenti silenzi.
Non vogliamo dire che Pannella avrebbe «salvato» il Partito democratico, come lui stesso ama prefigurare, né che Di Pietro avrebbe conferito altro realismo alla retorica della legalità che il senatore Colombo sfodera resuscitando un irrancidito antiberlusconismo. Ma è certo che qualcosa sarebbe cambiato nel progetto di un partito che nasce vecchio e, come si suole dire, già tutto visto.
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