Il Pd con la sindrome di Michael Jackson

Scusate lo so che è politicamente scorretto, ma lo scrivo così come mi viene in mente. Il Pd è come Michael Jackson. In questo strano avvio di congresso, in questa fragorosa collisione mediatica di storie e simboli, visto che i gloriosi Cccp si chiedevano se ci fossero Affinità e divergenze fra il compagno Togliatti e noi (grande titolo del pop italiano anni Ottanta) può capitare di chiedersi se ci siano affinità e divergenze fra il compagno Michael Jackson e il Partito democratico. Anzi, non c’è nemmeno bisogno di chiederselo. Ci sono e basta, perché a stabilirle è stato qualcosa di più di una opinabile connessione logica, ma un fatale nesso temporale. Nel giorno in cui moriva la più ascoltata rockstar del ventennio, iniziava il congresso morto del Pd. Un congresso in cui il primo leader a scendere in campo annunciava la sua candidatura con un video copiato da un video del suo principale avversario politico di quindici anni prima. Se vedi Dario Franceschini davanti alla sua biblioteca da video elettorale forse più colta (ma altrettanto finta) di quella del celebre discorso di Silvio Berlusconi del ’94 - una biblioteca costruita ad arte negli studi di Youdem tv come in un set cinematografico - pensi che la chiave interpretativa della finzione, la stessa che ossessionò gli ultimi giorni e la vita di Michael Jackson, sia la medesima che assilla i dirigenti del Pd di oggi. Pensi che il Pd sia molto simile a Michael Jackson perché al pari di lui è convinto di avere un’identità nuova: e invece, più semplicemente, si vergogna della sua vecchia identità. E pensi che il Pd gli assomigli perché, proprio come lui, si è convinto di aver abbandonato la sua vecchia identità, mentre invece si è semplicemente sbiancato il colore della pelle (che come è noto è un’altra cosa). La gente osservava il calvario chirurgico di Michael con affetto e compassione: lui si contemplava allo specchio e immaginava di essere il prototipo di una nuova razza. Ecco, anche il Pd è un po’ così, identitariamente confuso, convinto di essere qualcosa di più del socialismo europeo, anche se ancora incapace di capire cosa, esattamente come Michael era convinto di non essere più un afroamericano, anche se ancora incapace di capire cosa. Il Pd, soprattutto quello veltroniano, era visibilmente affetto come Michael, della sindrome di Peter Pan: un cinquantenne alle prese con le prime rughe che voleva ancora giocare al folletto che combatte i pirati. Il Pd è come Michael Jackson perché come lui è indeciso a tutto ed ha un micidiale cocktail di pillole nello stomaco: candidature vere e false, un mondo di regole incomprensibili che assomiglia molto a Neverland, il ranch di Michael, che il suo proprietario immaginava come un pianeta fatato, e che invece era l’alcova di segreti poco nobili, e di verità rimosse. I giornali di questi giorni hanno ricostruito insieme all’autopsia della pop star una vita di lifting, di continui aggiustamenti cosmetici, di trapianti costosi più o meno riusciti, la parabola di un corpo che passa dalla chioma folta e riccia di un bambino prodigio, alla struttura asciutta del professionismo, fino alla decadenza, alla sedia a rotelle, alle mascherine antibatteriche, ai sogni di revanche che non si incarnano mai, perché il tempo della giovinezza è passato. È l’eterno ritorno al viale del tramonto, al cinema che è diventato «troppo piccolo» per la diva decaduta Gloria Swanson, e non lei ha che ha perso la grandezza, come sanno tutti coloro che hanno visto il capolavoro di Billy Wilder. Anche il Pd è un corpo anziano che si crede bambino, un corpo martoriato dai troppi trapianti in cui il tessuto epidermico vecchio si è mangiato quello nuovo, in cui troppi simboli sono stati sovrapposti senza successo, come le rinoplastiche sul viso di Michael. Il Pd, come il mondo strambo di Neverland, è un partito in cui i giovani parlano come i vecchi e si rimbambiscono fino all’idiozia. E io, che su questo giornale avevo raccontato il frammento di nuovo che era affiorato intorno alla figura di Debora Serracchiani, devo confessare che sono rimasto allibito davanti al suo libriccino, in cui lei spiega candida che per lei Moro e Berlinguer, tutto sommato sono la stessa cosa, esattamente come ero rimasto atterrito di fronte a Marianna Madia che spiegava di voler mettere a disposizione del partito la sua «formidabile inesperienza», come se l’esaltazione del dilettantismo e l’apologia dell’infantilismo politico fossero l’unico modo per sentirsi vivi. Allo stesso modo, i produttori di Michael hanno raccontato in questi giorni che l’uomo che aveva reinventato nel mondo del pop bianco un frammento della cultura soul con uno straordinario esercizio di maestria, negli ultimi tempi scriveva delle canzoncine abuliche, che suonavano vuote e strampalate, fuori di sesto. Michael è la rockstar che si trova già alla vigilia della propria morte biologica, ma non lo sa, o non lo vuole sapere, e che allora programma una tournée trionfale che lo possa riportare agli antichi fasti, all’età dell’oro, al tempo dei successi che scalano le classifiche. Dario Franceschini, in questi giorni, ha molto di quel Michael Jackson. Proclama vittorie inesistenti, si rimangia parole date, giuramenti solenni. Potrebbe girare un altro meraviglioso video da Korogocho, la località africana dove stanno ancora aspettando il suo supporter Walter Veltroni. I Jackson Five della politica italiana degli anni Settanta, poi sono stati proprio Dario Franceschini e i suoi amici della corrente «zaccagniniana», il loro primo successo, la loro prima hit, è la rivista Settantasette, un single che oggi nessuno più ricorda: immagini in bianco e nero. E così, il Pd franceschiniano che sogna di ritornare al successo dopo il tracollo, ci sono gli amici che ti abbandonano, malinconicamente. Veltroni racconta di essere rimasto traumatizzato sul palco dalle facce dei suoi compagni di partito e dai loro ghigni, così come Michael che era stato un grande animale dal palcoscenico adesso ne aveva una fobia assoluta. Sergio Chiamparino ci ha spiegato che lui non correrà, perché nessuno dei vecchi musici gli ha offerto di accompagnarlo. Chissà se il nuovo leader del Pd si ritroverà come Michael a Neverland, che sogna il ritorno e deve ingaggiare dei mestieranti perché i vecchi compagni di battaglia sono tutti via. Alla fine i personaggi più vitali del Pd sono Ignazio Marino, uno a cui gli ascoltatori di Radio Tre hanno detto: «Lei è la persona giusta, al capezzale del Pd serve un chirurgo». Meglio Zoro, il blogger che sta coi piedi per terra e canta l’unica cosa possibile, il disincanto.

E forse l’unico altro barlume vitale è in Pierluigi Bersani, che ha scelto come suo modello Vasco Rossi, il rock padano, il vitalismo spericolato. Ha mezzo secolo pure lui, sul palco: ma almeno di una cosa si può essere certi. Uno che è arrivato da Zocca non morirà mai suicida.

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