Perché la destra non è montiana

Perché il premier non piace alla destra? La risposta di Marcello Veneziani al commento di Ernesto Galli della Loggia pubblicato ieri dal Corriere della Sera

Perché la destra  non è montiana

Caro Galli della Loggia,

non è affatto strabiliante, come tu scrivevi ieri sul Corriere della Sera, che la destra non si riconosca in Mon­ti, così sobrio e moderato come i notabili della de­stra storica. Lascio da parte le ragioni arcinote e contingenti: il governo dei tecnici fu calato da fuori e dall’alto e scalzò un governo di centro-de­stra eletto democraticamente. E lascio da parte anche la delusione per il suo operato: molte tas­se e pochi tagli, troppe incertezze e scarsa atten­zione anche a un elementare principio di destra liberale: anche se aumentano le tasse il prelievo fiscale diminuisce se si punisce chi investe, se si colpisce chi compra. Ma lasciamo da parte tutto questo, e veniamo al cuore del problema che sollevi. Ci sono buone ragioni di principio e di fatto che rendono incom­patibile Monti con la destra, anche nella versio­ne estesa del centro-destra. Il centro-destra ha avuto vita e consenso solo quando non è stato espressione di minoranze, di salotti e di poteri, ma quando ha sposato il primato della decisio­ne politica e della sovranità nazionale e popola­re. Non solo in Italia, anche in Francia con De Gaulle, in Spagna con Aznar, in Germania con Kohl. L’antagonista della destra di oggi non è il co­munismo operaio e il proletariato ma la nuova borghesia radicale. Anzi per essere più precisi, l’antagonista della destra è il patto tra la sinistra politico-ideologica e la destra tecnico-economi­ca, che idealmente fu sancito a Bologna tra Mon­ti e il partito de la Repubblica ; a una cosa del gene­re, che potremmo chiamare la Bolognetta, dopo la svolta della Bolognina, siamo arrivati tramite Napolitano, con Casini e Fini nel ruolo di mo­sche cocchiere. La destra economica da sempre è stata avver­sa alla destra politica ed estranea alla destra morale. E Monti è un commissario rispettabile, ma legato per indole e curriculum ai circoli internazionali che sappia­mo. Possiamo accettarlo come Eduardo accettò ’A nuttata , sa­pendo che passa, e che farlo cade­re peggiorerebbe ulteriormente le cose. Ma non chiederci di spo­sarlo. La destra che tu e il Corrie­re ogni tanto profilate, è una de­stra di minoranza liberale, che odora di cent’anni fa, cioè prima della democrazia di massa, so­bria e rigorosa quanto inefficace e impopolare. Senza tirare in bal­lo il fascismo, la «destra» nella Re­pubblica italiana si è affermata o col centro cattolico-popolare, cioè con i democristiani, o con la destra sociale, cioè nazionale e popolare, a volte anche monar­chica ( il caso Lauro a Napoli). I li­berali, pur degni, non incisero mai in modo significativo nella storia della Repubblica italiana, a parte alcuni isolati galantuomi­ni. La destra, anzi il centro-de­stra, in Italia ha una sua storia e anche precisi riferimenti. Vuoi i nomi? Una destra larga e viva nel quadro bipolare si può richiama­re, secondo le diverse sensibili­tà, a politici come Fanfani, Craxi, Pacciardi, Almirante, a tecnici come Enrico Mattei o Ettore Ber­nabei, perfino a leghisti come Mi­glio (e a qualche Papa). Tutti ac­comunati da quella linea decisio­nista, nazional-popolare, che as­segnava alla politica la sovrani­tà, non alla tecnica, alle banche o all’economia. E non è solo un re­taggio fascista o peronista: an­che i conservatori, da Burke a Tocqueville, fino a Fisichella, hanno sempre criticato il potere del denaro sulla politica e hanno sempre difeso la sovranità della tradizione su quella finanziaria.

Quando degenera, quella li­nea si fa populista o popolana; ma se si parla di deriva populista nel centro-destra italiano si deve avere l’onesto coraggio di dire che dall’altra parte non si con­trappone la democrazia liberale, bensì la deriva oligarchica, ovve­ro il patto implicito o esplicito tra i poteri economici e le caste intel­lettuali e giudiziarie, partitiche e sindacali di sinistra. E quanto a deriva populista, Di Pietro, Gril­lo e Vendola non ne sono certo immuni. Perciò, caro Ernesto, non possiamo dirci montiani.

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