Questa sera Enrico Letta avrebbe dovuto inaugurare la nuova stagione di Che tempo che fa, in obbedienza a una regola non scritta quanto inflessibile della telepolitica italiana: il presidente del Consiglio in carica, soprattutto se vagamente di sinistra, deve ogni anno baciare pubblicamente la pantofola al conduttore che più di tutti piace alla gente che piace. Ma la festa apparecchiata da Fabio Fazio non poteva capitare in un momento peggiore, per Letta e per il governo che presiede, ormai orfano di cinque ministri e senza maggioranza.
Appena avuta da Alfano la notizia delle dimissioni dei suoi ministri, Letta ha chiamato Napolitano e si è offerto di salire al Colle già in serata per rassegnare le dimissioni. Ma il capo dello Stato ha suggerito un'altra strada, poi riassunta da Palazzo Chigi così: «Il chiarimento deve avvenire in Parlamento, alla luce del sole, di fronte ai cittadini». Sarà dunque il Parlamento a discutere: forse martedì, probabilmente già prima, Letta si presenterà in aula per chiedere e verificare se dispone ancora di una maggioranza. L'esito appare scontato.
C'è un paradosso in questa crisi. Mentre tutti tenevano sotto osservazione Matteo Renzi, considerato il leader neanche troppo occulto del fronte sotterraneo e trasversale che non ha mai amato questo governo e che vorrebbe quanto prima le elezioni anticipate, è stato proprio Letta a imporre alla crisi l'accelerazione poi sfociata ieri pomeriggio, non senza sorpresa tra le file democratiche, nelle traumatiche dimissioni dei ministri del Pdl.
Dagli Stati Uniti, infatti, è tornato un Letta profondamente cambiato, molto meno fiducioso nella possibilità di proseguire decentemente l'azione di governo, e soprattutto sempre più sospettoso: nei confronti di Berlusconi e del Pdl, naturalmente, accusati di aver «umiliato l'Italia per coprire i suoi guai giudiziari», ma anche del Pd terremotato dal congresso e dello stesso Napolitano, la cui volontà di tenere in vita l'esecutivo a tutti i costi deve esser sembrata a Letta più un suicidio assistito che una prospettiva politica praticabile. Da qui la scelta di sfidare il Pdl («Sull'Iva Berlusconi rovescia la frittata», ha twittato Letta nel pomeriggio) e arrivare subito al «chiarimento» (che Napolitano avrebbe preferito far slittare di una settimana, dopo il voto in Giunta su Berlusconi).
È stata proprio la decisione di Letta di intimare al Pdl quel perentorio «prendere o lasciare» che ha occupato le prime pagine dei giornali di ieri a scatenare la controffensiva berlusconiana. Ed è stata la scelta di confermare l'aumento di un punto dell'Iva a consentire a Berlusconi di spezzare la gabbia in cui lo si voleva rinchiudere, quella puramente giudiziaria e personale, per spostare lo scontro sul campo di gioco preferito dal centrodestra: le tasse.
È vero che Letta - o almeno alcuni lettiani - avevano cominciato da un paio di giorni a tifare per la crisi, convinti che l'unico a rimetterci, nel tentativo di scongiurarla, sarebbe stato proprio il premier: ma il piano, se mai c'è stato, prevedeva che fosse Berlusconi a far saltare il tavolo dopo la sua decadenza da senatore, consegnando così a Letta la medaglia di paladino della legalità e l'investitura a leader naturale della prossima santa alleanza anti-Cav.
Già, perché qualcuno aveva ipotizzato uno show down entro l'11 ottobre, in tempo per consentire a Letta di iscriversi alla corsa per la leadership del Pd e salvare il partito dal ciclone renziano.
Ora la partita è assai più complicata. Si sa che Napolitano cercherà in ogni modo di mettere in piedi un Letta-bis «di scopo», che vari la legge di stabilità e faccia (ma nessuno ci crede davvero) la riforma elettorale. Gran parte del Pd è sulla stessa linea, almeno in questa primissima fase. Ma Letta fiuta il pericolo e teme di scottarsi anche di più: se non ha funzionato un accordo organico e di programma con il Pdl, è molto difficile che possa avere successo una coalizione fondata su un pugno di transfughi grillini, Sel e i neosenatori a vita. Dall'unità nazionale si passerebbe bruscamente a un governo gruppettaro, fortemente sbilanciato a sinistra e, con ogni probabilità, destinato alla paralisi sulle scelte decisive.
Per ora Letta veste i panni della vittima inconsapevole (ha fatto sapere che anche i ministri del Pdl erano favorevoli a congelare il decreto sull'Iva), ma il nuovo scenario imporrà presto un cambio di passo. Stretto fra il Colle e un Pd senza guida, Letta si gioca in questi giorni la partita della vita.
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