«C'erano le Brigate rosse, la crisi del petrolio e le lotte sindacali. L'Italia attraversava un momento difficile, forse ancor più di quello attuale e noi creammo il marchio del Mulino Bianco. Un marchio ispirato a principi positivi, alla fiducia e all'ottimismo. Principi che oggi i politici non sanno trasmettere». Anche se il termine non gli piacerà, Francesco Alberoni è l'ideologo della filosofia Barilla, eminenza grigia di tanti successi e consigliere di Pietro, il nipote del fondatore. Al punto che, oggi che compirebbe un secolo, ha pubblicato con Rizzoli una biografia del grande imprenditore scomparso il 16 settembre 1993.
Più che una biografia la sua è un'intervista non troppo immaginaria.
«È un libro che ha la struttura del dialogo tra due vecchi amici. Gli faccio raccontare degli episodi, cominciando dagli anni '50, quando lo conobbi. O quando andò in Germania per comprare tre macchinari e tornò che ne aveva comprati sette. Poi andò in America...».
Come definirebbe il vostro rapporto?
«Sono stato un loro consigliere in tante vicende. L'ho fatto anche con altri, ma nel caso di Pietro si è stabilito un rapporto sincero e affettuoso. Infatti il libro è dedicato a un amico».
La Barilla era un'azienda d'impronta familiare. Come divenne un marchio mondiale?
«La Barilla era importante già negli anni '30. Pietro considerava la pasta il cuore della cucina italiana. A Pedrignano c'era il più grande pastificio del mondo. Poi venne la svolta della comunicazione».
Si decise di coinvolgere Mina.
«Lei portò un'immagine di essenzialità e qualità: la pasta era la regina della nostra cucina. Dove c'è Barilla c'è casa: in fondo comunicavano loro stessi. Diventò un marchio inconfondibile che esprimeva il nostro essere italiani. Un po' come la Ferrari. Infatti, si frequentavano molto».
Chi ideava gli slogan?
«Pietro ha sempre avuto ottime agenzie. Ricordo una volta che non era convinto di una campagna, telefonò a Fellini che gli mandò un film in cui una raffinata signora entrava in un elegante ristorante con uno chef che magnificava una serie di piatti parlando francese. Ma alla fine la sofisticata signora ordinava degli italianissimi rigatoni. La pasta era un cibo nobile. Poi arrivò Gavino Sanna, la bambina con l'impermeabile giallo salvava il gattino...».
Un successo basato su slogan sentimentali?
«Pietro non era solo un uomo di comunicazione, anzi. Seguiva personalmente tutte le linee di produzione. Sceglieva i macchinari, si consultava con gli ingegneri tedeschi. Credeva molto nella tecnologia, consapevole che risparmiava fatica e migliorava le condizioni dei lavoratori. Ne aveva visti troppi ammalarsi di polmonite negli essiccatoi...».
Credeva anche nell'alleanza tra cultura ed economia. Una rarità...
«Per lui un fatto naturale. A Parma ci fu il primo convegno sul neorealismo. Poi ispirò La Palatina, la rivista dove scrivevano i migliori autori. Diceva che bisognava prendere sempre i numeri uno, così non si sbaglia. Frequentava scrittori, registi come Valerio Zurlini. Ma senza snobismi».
Come si comportava in azienda?
«Aveva grande rispetto dei dirigenti: anche se era un'azienda familiare, il proprietario non interveniva a piedi uniti. Tranne quando andava a rotoli e bisognava cambiare rotta».
Come avvenne negli anni '70 quando fu venduta agli americani.
«Non fu lui a volerla vendere, ma il fratello Gianni che aveva la mentalità del finanziere. Per Pietro l'azienda era il proseguimento della famiglia, una realtà radicata nella città. Ma erano gli anni degli autunni caldi e cedette».
Poi però la ricomprò.
«Andando controcorrente. I banchieri, Cuccia compreso, lo sconsigliavano. Creò una società in cui aveva la presidenza e reinvestendo il profitto tornò proprietario della sua azienda. Eravamo all'inizio degli anni Ottanta e la Barilla ebbe il suo massimo sviluppo».
I banchieri erano scettici anche allora nei confronti dell'economia reale?
«Non credo si possa generalizzare.
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