Renzi spara in alto, è guerra nel Pd

Renzi spara in alto, è guerra nel Pd

RomaForse occorre cambiare verso alla comune visione. Non sarà perciò una passeggiata trionfale, quella di Matteo Renzi tra le carni dilaniate della nomenklatura pd: tanto nella battaglia congressuale dei circoli quanto nella (troppo) annunciata vittoria finale. Ha ragione il professor Cacciari a mettere sull'avviso: «Occhio, dopo il congresso le oligarchie ti attendono per la resa dei conti».
Ci sarà tanto terreno da sminare. Ed è appunto per questo che il sindaco di Firenze ha scelto una campagna per le primarie per niente comoda: «Mi sarebbe convenuto star bonino, non smuovere le acque, parlare meno e vincere facile». Invece Matteo vuole davvero la «rivoluzione» nel partito, e che il marcio salga a galla. È possibile che se ne penta, considerata la situazione. Anche perché la consueta divisione all'interno del Pd, cui ormai non si può che essere assuefatti, l'ennesima scaramuccia polemica scatenata dopo il suo niet all'amnistia, è un po' diversa dal solito. Alto il livello della minaccia, altissime le sfere toccate: Quirinale e Palazzo Chigi. Senza sbagliar troppo la mira, si direbbe i veri nuclei atomici dell'oligarchia che tiene in piedi il Pd: il commissario quirinalizio Napolitano e il titolare del governo stabile-di-servizio Letta. Non potendosi giocare con armi convenzionali, si capisce che la partita abbia luogo con missili intelligenti (si fa per dire).
«L'idea dell'indulto è diseducativa - ripete Renzi in tv e poi a Firenze - non si può fare il bomba libera tutti dopo sette anni perché la certezza del diritto e della pena è fondamentale. Non è serio, la legalità è un valore di sinistra e non lo si può scoprire solo quando c'è Berlusconi». Però, dice nello stesso tempo il Matteo bifronte, segretario in pectore che vuole restare sindaco: «Non ho attaccato il Capo dello Stato, lui è stato ineccepibile, non c'è eccesso di interventismo». Tutto ok? Per nulla, aggiunge il Renzi uno-e-trino: «Ma bisogna avere anche il coraggio di dire che su alcune cose si può non essere d'accordo e non è lesa maestà. Non si può dire l'ha detto il Capo dello Stato quindi si fa così...».
Nel frattempo, la contraerea lettiana ha inviato un katiusha tramite ministro dello Sviluppo Zanonato, che vede nei ragionamenti renziani «un calcolo di convenienza nei confronti dell'opinione pubblica, dell'oggetto in sé non gliene frega niente: lui fa il bilancio un po' come Grillo, ne perdo il 10, ne prendo il 15, cinque in più sono contro...». Impressione senz'altro fondata, vista la scarsa presa popolare dell'indulto. Ed è altrettanto chiaro che al missile da campo risponda subito Matteo con un siluro: «Il ministro dello Sviluppo si preoccupi di come far sì che le aziende non chiudano, di aiutare gli artigiani e non di stare a lamentarsi dalla mattina alla sera di cosa dico». Cui si associa tutta la truppa di supporto: dal sottosegretario D'Angelis («Ha ragione da vendere») ai senatori amici («La sua posizione è quella del partito»), a Michele Anzaldi (già body-guard rutelliano). Così che Zanonato arriverà persino a paragonare Renzi a Garibaldi («criticarlo ormai è reato di lesa maestà»), mentre Fioroni, Merlo, Follini insorgeranno, la Bonino prenderà partito («Se Renzi è il nuovo, meglio l'antico») e Cuperlo, il competitor signore, si rifugerà nella ridotta del Quirinale.
Folklore? No, battaglia congressuale che incrocia progetti neo-centristi e quieta non movere imposti dal Colle: miscela assai esplosiva per un partito fondato sullo schema bipolare - non a caso Renzi chiede una legge elettorale che consenta «alternanza e non ammucchiate selvagge, inciucione legalizzato» - e su certezze radicate.

Tipo quella del sindacato amico intoccabile, cui invece Matteo finisce per contrapporre una Fiom «lontana da me, che però i voti se li va a prendere in fabbrica. Altre strutture un po' meno: rappresentano soprattutto pensionati». Alla fine sarà sindaco e magari diventerà pure premier, ma forse anche ultimo segretario del Pd. Almeno come l'abbiamo conosciuto finora.

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