Altro che «asse generazionale», altro che accordo per la staffetta che tanti sognavano nel Pd: ormai la sfida tra Enrico Letta e Matteo Renzi è pubblica e dichiarata. I due si scambiano colpi micidiali a distanza, sia pur col sorriso sulle labbra. «C'è chi fa e chi invece rinvia», spara Renzi. «Se c'è una cosa che detesto è la politica fatta a battute, che adesso invece trionfa», restituisce al mittente l'altro.
E anche il premier rinuncia a quell'understatement che Renzi bolla perfidamente come «un po' democristiano» (dopo aver tenuto a sottolineare che lui, a differenza di Letta, non è «mai stato democristiano», anche perché «la prima volta che ho votato c'era già Berlusconi e non c'era più la Dc, e neanche il Pci») per dire chiaro e tondo che il sindaco di Firenze il suo appoggio nella corsa congressuale se lo sogna: «Faccio il presidente del Consiglio di una maggioranza, e penso che mi capiranno se preferisco concentrarmi solo sul governo», risponde a domanda diretta. Nessun endorsement: se Renzi diventerà segretario non sarà con la benedizione dell'inquilino di Palazzo Chigi. Che certo non si sporcherà le mani neppure a cercare l'anti Renzi, come avrebbero voluto altri maggiorenti Pd atterriti dal tornado che si sta per abbattere sul «loro» partito: D'Alema, Bersani, Epifani e chi per loro se la vedano come meglio credono, Letta ha altro a cui pensare. Il governo di oggi, quello delle larghe intese, e - sempre più chiaramente - anche il possibile governo di domani.
E le immagini del duello a distanza tra le due primedonne Pd, ieri, erano assai suggestive: da un lato il premier, in maniche di camicia azzurrina, che parlava tra le calde ovazioni di una platea post Dc (era alla festa dell'Udc di Chianciano) contro un fondale blu cosparso di scudi crociati e simboli del Ppe. Dall'altra Renzi, alla Festa democratica di Torino, sullo sfondo rosso e verde cosparso di foglioline d'ulivo del simbolo Pd. Due rappresentazioni iconografiche che suggeriscono due potenziali progetti politici assai diversi. Allo scontro per la premiership, che entrambi calcolano (salvo clamorose svolte come una crisi a breve) si terrà verso tra fine 2014 e inizio 2015, Renzi vuol arrivare da leader del Pd, e dopo aver testato elettoralmente la propria forza alle prossime Europee, guidando le liste del partito. «Voglio governare il Paese con il Pd, non con le larghe intese», dice. Prendendo «i voti dei delusi Pdl», certo, ma anche «quelli dei delusi di Grillo, e dei delusi del Pd». Letta, invece, punta su un progressivo appiattimento a sinistra del Renzi segretario per proporsi come il leader moderato che è riuscito a governare con il centrodestra e a costruire un «asse generazionale», all'ombra del Ppe, con i suoi alleati (a cominciare da Alfano, Lupi e i ministri Pdl), e che si candida a diventare il naturale erede di un'ampia fetta di elettorato centrista e orfano di Berlusconi. I suoi lo ammettono, quando spiegano di sperare in una uscita di scena «dolce» e progressiva del Cavaliere, che pur mettendosi «di lato» continui a tenere insieme i suoi evitando che «il vuoto a destra venga riempito da qualcun altro».
Progetti futuribili e ancora tutti da verificare. Il presente, intanto, è un Renzi che riempie platee osannanti alle feste del Pd, sempre più deciso a portare fino in fondo la sua battaglia: «Epifani mi ha detto che in settimana ci rivelerà la data del congresso, e Epifani è un uomo d'onore».
Il congresso sa di averlo già vinto (i sondaggi interni gli danno mirabolanti percentuali oltre il 70%). E si prepara ad incalzare senza sconti l'esecutivo Letta. Perché «il governo delle larghe intese è la sconfitta della politica».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.