Controcorrente. Il nostro marchio di fabbrica, l'unica strada per portare l'Italia fuori dalle secche della crisi. Si apre venerdì a Sanremo la sei giorni del «Giornale» tra politici, intellettuali e grandi firme.
Essere controcorrente non è una moda e nemmeno una convinzione privata e personale come l'essere vegetariano: è una sfida. Si è contro perché si ritiene che l'essere contro, in un determinato momento e su un determinato argomento, sia irritante, sia impopolare, ma sia giusto.
Quando Montanelli scelse quel nome per la famosa e fortunata rubrica delle sue punzecchiature o sferzate o sciabolate giornalistiche, ebbe un'idea degna di quel genio che era. Il «Controcorrente» di Indro - che durò vent'anni, dal 1974 al 1994 - riassunse in una parola composita il concetto di polemica e di vita che dovrebbe ispirare non solo noi professionisti dell'informazione, ma tutti (...)
(...) coloro che vengono proclamati Maestri con la M maiuscola e che invece si adagiano e si crogiolano nella corrente, nei luoghi comuni, nel politicamente corretto, nelle frasi fatte, in un repertorio di banalità che spesso e volentieri vengono spacciate come intuizioni prodigiose. Essere controcorrente significa porsi al di fuori e anche al disopra delle piccole o grandi utilità derivanti dagli elogi ai conformisti e dai servizi ai potenti.
In Montanelli l'essere contro assumeva a volte le connotazioni d'un divertissement salottiero, gli scontri con Fortebraccio erano esercitazioni di fioretto, non da vero duello. Ma all'occorrenza il leone sfoderava gli artigli e li affondava nella carne viva dei difetti di questa nostra ingovernabile e inaffondabile Italia. Non temeva di essere provocatorio quando dissacrava i tabù della stentorea oratoria pubblica e delle consorterie intellettuali, fu coperto di improperi perché non si prosternava davanti ai miti dell'antifascismo, come invece era ritenuto doveroso in alto loco. Il «Controcorrente» è morto con Montanelli, come creatura giornalistica. Ma oggi c'è un gran bisogno di farlo vivere come creatura della nostra quotidianità, del nostro modo di pensare, del nostro modo di polemizzare e di rispondere alle polemiche, del nostro civismo.
Ai controcorrentisti i bersagli non mancano mai, i tromboni del déjà vu sono infaticabili, procurano ampio materiale anche a Ferragosto. Alcuni bersagli sono d'annata, ho già accennato all'antifascismo. Il sarcasmo è utile e facile quando le vestali di «ora e sempre Resistenza» si scagliano contro Giampaolo Pansa perché ha osato scrivere, in un libro, che dopo la liberazione c'è stato un certo numero di mattanze. Ma anche la magistratura è un tema perenne, chi è controcorrente non accettava le demonizzazioni dei giudici che tanto piacevano un tempo alla sinistra, soprattutto a quella estrema, e che sono state rimpiazzate dall'idolatria delle toghe (tranne che per Erri De Luca, lui almeno cupamente coerente, che tuttora esalta i misfatti dei No Tav e deplora i detti del procuratore Caselli). Molti adoratori dei magistrati, e delle sentenze passate in giudicato, furono di parere esattamente contrario per la condanna di Adriano Sofri. Quella doveva essere ribaltata nel nome di supremi ideali, quella di Silvio Berlusconi deve invece assumere le caratteristiche della inviolabile perennità. Per un tifoso del controcorrente l'irrisione o lo scherno, di fronte ai voltafaccia, sono inevitabili.
L'Italia ha bisogno di molte cose, ma di una soprattutto: la verità. Il «Controcorrente» - montanelliano o no - è uno strumento che consente di cercare le verità sotto la superficie del pensiero unico, dei moralismi ipocriti, delle virtù tanto più ostentate quanto più sono false. Mi guardo bene dal dire che tutta la politica sia menzogna e tutta l'informazione un inganno. Così come mi guardo bene dal dire che i difetti della simulazione buonista stiano soltanto in uno schieramento. Cerchiamoli là dove sono. I santi latitano. Proprio per questo ci siano allora risparmiate le santificazioni abusive.
Marco Lombardo
di Mario Cervi
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