Il 13 marzo 2013 si è per l'ennesima volta verificata la validità di quanto scrisse Isaia 2700 anni fa: «I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie». L'elezione di Jorge Mario Bergoglio ha colto tutti di sorpresa. Qualcuno che l'aveva detto si trova sempre, molti lo speravano, ma il suo nome appariva al massimo tra gli outsider.
Una sorpresa nella sorpresa è stata l'insistenza, nel suo primo saluto al popolo romano e al mondo, con cui ha parlato di sé esclusivamente come «vescovo di Roma», ha pronunciato la parola «vescovo» ben cinque volte senza mai dire «Papa». Per indicare il ministero petrino ha usato la formula di sant'Ignazio di Antiochia: la «Chiesa di Roma, che è quella che presiede nella carità tutte le Chiese».
Nella semplicità con cui si è presentato ai suoi fedeli, ricordando loro che anche Roma è una città da «evangelizzare», Papa Francesco ha lanciato un grande messaggio di unità rivolto a tutti i cristiani, riportando la funzione della Chiesa di Roma al suo fondamento.
Ignazio, morto martire a Roma, è un vescovo del II secolo che con quella formula riconosce un primato alla Chiesa di Roma, già testimoniato nella I lettera di Clemente del 96-98 in cui si parla dell'intervento di Roma nelle questioni interne della Chiesa di Corinto, una preminenza «nella carità» che non è solo di natura esemplare, la parola «agape» usata da Ignazio indica anche la natura comunionale della Chiesa, se non la Chiesa stessa. Ma è importante quella formula, così poco giuridica, perché potrebbe essere accettata anche dal mondo ortodosso, che ha nel primato petrino uno dei suoi punti problematici con la Chiesa cattolica.
Papa Francesco si dimostra in questo in perfetta continuità con il suo predecessore, il quale nel suo primo discorso parlò della tensione «alla piena unità» come del «supremo anelito» di Cristo, di cui il «successore di Pietro sa di doversi fare carico in modo del tutto particolare». Benedetto XVI si assunse allora «come impegno primario», «ambizione» e «impellente dovere» quello di «lavorare senza risparmio di energie alla ricostituzione della piena e visibile unità di tutti i seguaci di Cristo», dicendosi «disposto a fare quanto è in suo potere per promuovere la fondamentale causa dell'ecumenismo».
Il 14 marzo 2007, Benedetto XVI dedicò un'intera udienza a Ignazio di Antiochia, citandolo come il primo che «nella letteratura cristiana, attribuisce alla Chiesa l'aggettivo cattolica, cioè universale», e parlando della Chiesa di Roma negli stessi termini di Papa Francesco: «E proprio nel servizio di unità alla Chiesa cattolica, la comunità cristiana di Roma esercita una sorta di primato nell'amore: In Roma essa presiede degna di Dio, venerabile, degna di essere chiamata beata... Presiede alla carità, che ha la legge di Cristo e porta il nome del Padre. Come si vede - concluse Papa Ratzinger - Ignazio è veramente il dottore dell'unità».
Di «Chiesa che presiede alla carità, cioè alla Chiesa universale» con il compito dell'unità, parlò anche Paolo VI nella sua omelia di inizio pontificato, e anche allora venne sottolineato che il termine carità supera, senza escluderla, una visione troppo giuridica della Chiesa.
Paolo VI fu il Papa che il 7 dicembre 1965 abbracciò il patriarca Atenagora e firmò con lui una dichiarazione che abrogò la scomunica del 1504 conseguenza dello Scisma d'Oriente.Un Papa di Roma che viene «dalla fine del mondo» e che sin dalla scelta del nome manifesta la sua umiltà e la volontà di essere sostegno alla Chiesa forse riuscirà a realizzare «l'ambizione» del suo predecessore.
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