Il sindaco che querela ma non aggiusta le strade

In casi del genere chi ricopre ruoli pubblici dovrebbe mettersi nei panni dei cittadini. Comprendere. Sono gli oneri della carica che si riveste

Il sindaco che querela ma non aggiusta le strade

A volte nel nostro Belpaese avvengono cose incredibili. Tutti conoscono la situazione delle buche di Roma. Problema tutt'altro che risolto, ma che nel periodo della giunta di Virginia Raggi raggiunse il suo picco. Specie negli anni tra il 2016-2018 la polemica si infiammò e a ragione. La sindaca, in ossequio alle logiche giacobine del grillismo che vedevano il malaffare ovunque, rallentò le gare di appalto per la manutenzione e la Capitale si trasformò in una sorta di Sarajevo sotto le bombe. I giornali parlarono di diecimila buche in città, il Wall Street Journal arrivò a calcolare 1.500 buche al giorno e 50mila al mese e addirittura di fronte a quello scempio i ciclisti del Giro d'Italia si rifiutarono per paura di correre la tappa nella Capitale. Ancora: nel solo 2017 secondo il Codacons ci furono 5mila richieste di risarcimento per incidenti provocati dalle voragini stradali e, purtroppo, la casistica di morti sulle strade determinati dalle cattive condizioni del manto lievitò di parecchio (si calcolò per difetto una ventina su un totale di 117 vittime).

Di questa condizione insostenibile erano a conoscenza tutti i romani. A me purtroppo però capitò pure di farne esperienza. Due incidenti in motorino nel giro di dieci giorni. Fortunatamente senza conseguenze gravi, ma che mi suscitarono tanta rabbia in corpo. Non frustrazione come azzardava ieri la Raggi in uno scritto, ma rabbia per quello che sarebbe potuto succedermi e che era successo ad altri meno fortunati di me. Per cui dopo la seconda caduta, invece di presentare una denuncia e chiedere un risarcimento ingolfando il Tribunale della Capitale, mi venne spontaneo scrivere un tweet di protesta. Proposi una questione: può una persona «incapace» nel suo ruolo, «ignorante» nelle nozioni necessarie per ricoprire l'incarico e «demente», termine inappropriato figlio della comprensibile furia per ciò che mi era capitato, fare il sindaco? Siamo alla «disonestà intellettuale» fu la mia conclusione citando Benedetto Croce. Ora quel vocabolo, «demente», è stata un'esagerazione, ma a paragone dell'elenco di offese che ho ricevuto dai militanti del movimento del «vaffa» negli ultimi 15 anni quell'espressione potrebbe suonare addirittura come un complimento.

Il punto però è un altro: in casi del genere chi ricopre ruoli pubblici dovrebbe mettersi nei panni dei cittadini. Comprendere. Sono gli oneri della carica che si riveste. Invece l'ex sindaca mi querelò. Ieri in un tweet in cui si esaltava per la mia condanna in primo grado al grido «giustizia è fatta», si è lasciata andare a due bugie che la dicono lunga sul personaggio. Sostiene che le strade dove sono caduto non sono di competenza di Roma Capitale? È il tentativo maldestro di nascondersi dietro un dito visto che le disavventure non mi sono capitate fuori dal raccordo anulare o in un sobborgo ma su una strada che costeggia il ministero degli Esteri e un'altra che lambisce Villa Borghese e collega via Veneto con i Parioli. Luoghi centrali che per loro natura dovrebbero essere di competenza del Comune e sui quali sicuramente al di là del gioco degli specchi delle nostre amministrazioni il sindaco ha una responsabilità politica. La seconda, è ancora più divertente, perché la Raggi spiega che l'obiettivo della querela erano solo le scuse. In realtà non è così: per quel «demente» che farebbe sorridere i suoi compagni di movimento abituati a usare ben altri improperi, ha avanzato una richiesta di risarcimento di 50mila euro e il giudice mi ha condannato a 5mila senza provvisionale. Più che di scuse che per quel «demente» di cui potrei scusarmi anche ora, la nostra ex sindaca era in cerca di soldi.

Ma la Raggi è la Raggi, non c'è bisogno che mi spieghi. La mia riflessione, invece, riguarda il modo di amministrare la giustizia nel nostro strano Paese, quella sorta di lettera scarlatta, per cui se ti considerano di un certo mondo, se non hai le stimmate di sinistra, anche se sei difeso da un valente avvocato come Fabio Viglione, nel 90 per cento dei casi ti becchi una condanna. Gli esempi sono innumerevoli. Nemmeno due settimane fa Pierluigi Bersani è stato assolto dall'accusa di diffamazione per aver dato del «cog...» al generale Vannacci. Qualche anno fa il direttore del Fatto, Marco Travaglio, che querelai per una serie di articoli in cui mi rivolgeva offese rispetto alle quali il mio «demente» alla Raggi appare meno di un buffetto, fu assolto perché il giudice accettò la tesi che fosse «satira». Insomma, verso gli insulti che arrivano dal versante della sinistra o dall'universo giustizialista i nostri tribunali hanno un atteggiamento comprensivo, li considerano leciti; se invece non fai parte di quei mondi, reagisci con troppa veemenza, magari per difenderti, vieni crocifisso, impiccato ad una semplice parola: un insulto riesce a far dimenticare tutte le buche di Roma. E poi dicono che non ci sia un orientamento, una simpatia, un'inclinazione politica prevalente nei nostri tribunali. O almeno così pare.

Da noi i giudici difendono chi li difende, chi è garante di uno «status quo» che garantisce tutto meno che una giustizia imparziale. Un'amara riflessione: nel Belpaese, per citare Bertold Brecht, il mugnaio di Potsdam per trovar un giudice a Berlino avrebbe dovuto davvero espatriare.

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