Roma - La verità è un'arma a doppio taglio, e anche un po' velenosetta. Così Pippo Civati, quando l'altra mattina era andato nel proprio circolo monzese per le primarie del segretario regionale, non vedendo coda (né capo, per la verità) in quel deserto, l'aveva girata in bene alla maniera di Mosè: «Poca gente, anzi quasi nessuno. E quei pochi non erano simpatizzanti del Pd, piuttosto direi antipatizzanti».
Antipatizzanti del ribaltone che ha mandato a casa Letta e messo sul trono il campione delle primarie, Matteo Renzi, intendeva Civati. Subito rincalzato da Stefano FassinaChi, ancora dolente per la precoce rottamazione subita. Il bollettino della disfatta in tutte le quindici regioni consultate confermava così che la gente non ne può più del Pd, delle sue beghe interne, delle sue consultazioni farlocche. Già, perché il metodo-primarie tanto strombazzato, quando non ci sono «big» in gara si traduce in disinteresse e ricorso al popolo solo dove non si sia già raggiunto un accordo di potere tra le componenti. Ma anche in quel caso, non essendoci stato in molte regioni neppure un passaggio nei circoli, s'è trattato di uno «stanco rituale plebiscitario per sancire accordi chiusi da un ceto politico autoreferenziale», per usare la veritiera nota stilata da Fassina, che non esitava a parlare di «drammatica caduta di partecipazione».
I ras locali del partito, ieri, hanno cercato di correre ai ripari, consolandosi con l'aglietto, come si dice a Roma. Però ormai si va facendo strada l'idea di «ripensare lo strumento delle primarie, usurato e politicamente spuntato», come lo definiscono ormai tutti. Se si nasconde anche in questo il significato dello slogan che imperversa tra i renziani, «bonificare la palude», è facile prevedere come il Pd corra felice verso la renzizzazione, ovvero la propria dissoluzione. Prova ulteriore ne sia la franca debolezza che mostra la minoranza interna, normalizzata nella componente degli ex «giovani turchi», oggi piuttosto pastorelli bulgari divisi tra il sorriso speranzoso di Andrea Orlando (punta a restare all'Ambiente) e il malinconico attivismo scritto nel volto di Matteo Orfini che passa le giornate in attesa della «chiamata». La chiamata di Lui - l'altro Matteo, quello importante.
E allora, con Civati che continua a sfogliar la margherita, ieri era «vorrei la scissione ma non posso», oggi di nuovo «non so se voto la fiducia» (mi si nota di più se voto o se mi apparto?); con Cuperlo che alle 7,30 di qualche mattina fa apprende dal vecchio Ugo Sposetti di dover rovesciare capra e cavoli e sostenere Renzi contro Letta, ecco che si rovescia davvero la struttura molecolare del Pd-palude, la cui mancanza d'identità oggi costringe tutti verso l'aggregazione al nucleo forte, il potere. Dunque: Renzi e Palazzo Chigi. Processo tradotto in linguaggio-verità dell'ex tesoriere Sposetti in un'intervista a Repubblica. Quando racconta di aver svegliato Cuperlo per informarlo che «ci stiamo coprendo di ridicolo con sto scontro Renzi-Letta, dobbiamo fare qualcosa»; che «Letta si è cacciato da solo, con lui avremmo perso amministrative ed Europee, il Paese abbandonato mentre lui faceva i viaggi all'estero». E che comunque «Cuperlo ha fatto benissimo a schierarsi con il segretario, bisogna sempre stare con il leader, con l'istituzione».
Sincero fino al midollo anche quando risponde «non esiste» all'ipotesi che Renzi resti ancora segretario del Pd. «Occorre aprire subito una discussione». Meno male, si torna all'antico partito di lotta (interna) e di governo, finché morte non li separi. Dalla poltrona.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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