È una malattia vera e propria. Anzi, ha le forme di un'epidemia strisciante anche se non fa copertina nei tg della sera. In Italia ci sono migliaia e migliaia di malati, tutti con la stessa diagnosi: gioco patologico. Seimila circa sono in cura presso le strutture pubbliche. Altri, che nessuno in questo momento è in grado di censire, possono permettersi sedute a pagamento con psicoterapeuti e psichiatri. Il fenomeno è imponente e in crescita: si alimenta con i venti della crisi e pesca nel disastro di una società sempre più frammentata, di più spappolata. Così chi ha smarrito affetti e certezze, si attacca ad una slot machine. C'è chi pensa che quella sia la scorciatoia verso la ricchezza, com'era il vecchio, sano miraggio cechoviano del 13 al totocalcio, ma per molti il concentrarsi su leve e numeri è semplicemente uno sfogo a frustrazioni rugginose, un antidoto alla fatica sconsolata di un vivere sempre più intossicato e senza orizzonte. C'è chi porta alle labbra una bottiglia, chi si rifugia nelle droghe o nel sesso, e c'è anche chi tappa il buco che lo scava a colpi di giocate.
L'Italia è indietro nell'affrontare un fenomeno che fa cassa - lo Stato tace, si frega le mani e incamera la bellezza di 8 miliardi l'anno - ma non fa notizia e dunque è importante che se ne cominci a parlare, come è successo ieri nel corso del convegno promosso a Milano, nella cornice prestigiosa del Piccolo Teatro, da Confindustria Sistema Gioco Italia.
La radiografia di questo Paese che si affida a slot e a videolottery la traccia Claudio Barbaranelli, ordinario di psicometria alla Sapienza: «In Italia esiste una platea vastissima, stimabile intorno alle 800 mila persone, che possiamo definire giocatori problematici, esposti al rischio di sviluppare una patologia. E poi ci sono i malati veri e propri, seimila solo quelli assistiti dalle strutture pubbliche». Attenzione, già il giocatore problematico è un essere vulnerabile debole, in difficoltà: «Spende più di quanto guadagna, non riesce a risparmiare nulla, ha contratto debiti con finanziarie o privati. Inoltre è onnivoro, gioca cioè contemporaneamente a più giochi, e sopravvaluta le propria capacità di vincere e di gestire il gioco». Insomma, è in balia delle macchinette sparpagliate ovunque fra bar, tabaccherie, sale dedicate, perfino lavanderie e sempre più incapace di fronteggiare la propria debolezza.
Sorpresa. Ogni due uomini c'è anche una donna in questa situazione. La massima concentrazione del disagio si addensa nel ricco e inquieto Nordest e più generale nei centri con più di 250 mila abitanti. Sorpresa nella sorpresa: il vizio, come lo si chiamava una volta, è legato ai geni: è più facile che si butti nel vortice chi ha entrambi i genitori o altri membri della famiglia già intrappolati dentro questa euforia fuori controllo. Per fortuna solo una parte modesta degli uomini e delle donne che vivono dentro questo grande imbuto scivola nel girone dei patologici. Qui, spiega sempre Barbaranelli, si supera la soglia fatale: «L'individuo non riesce più a controllare gli impulsi e la regola diventa un disordine che consiste in frequenti episodi di compromissione dei valori e degli impegni sociali, materiali e familiari». L'esistenza corre sulle montagne russe dell'azzardo. E si sviluppa una dipendenza che ricorda, naturalmente con le dovute differenze, quella dei tossicodipendenti. I piagnistei, però, servono a poco. «Una volta - spiega Giorgio Vittadini, presidente della Fondazione sussidiarietà - il gioco era festa, era partecipazione, era sogno. Oggi è ripiego, è disagio, è solitudine. Ed è il sintomo di una malattia che va oltre le cifre del nostro declino e tocca le corde di un'umanità slabbrata che dev'esser rieducata». Un compito immane. Un percorso lunghissimo.
Il primo passo però lo detta Massimo Passamonti di Confindustria: «Riduciamo i luoghi in cui si può giocare e il numero delle macchinette». Oggi una tentazione senza filtri e barriere che promette a tutti ma fa felice solo il fisco.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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