MilanoLontana dal pugno di ferro e dall'indulgenza. Non inclemente, ma neppure benevola. La parabola buia di Adam «Mada» Kabobo finisce con una sentenza a metà del guado: scontenti i parenti delle vittime del picconatore del Niguarda, e scontenti quanti - a partire dai suoi legali - chiedevano che il ghanese venisse riconosciuto per quello che in effetti sembra essere: un (pericoloso) matto. E invece no. L'uomo che lo scorso 11 maggio uccise a Milano tre passanti viene condannato a vent'anni di reclusione, più tre da passare in una casa di cura alla fine detenzione. Deluso il partito dell'ergastolo - dalla Lega a FdI - ma il rito abbreviato e il riconoscimento della seminfermità hanno prodotto l'inevitabile sconto di pena. E delusi anche gli ipergarantisti, che per Kabobo avrebbero voluto il ricovero in una struttura sanitaria che ne potesse curare gli evidenti disturbi mentali. Alla faccia della comprensibile rabbia di chi ha perso un padre o un marito sotto i colpi di quella furia che «sentiva le voci».
E invece, in modo un po' pilatesco, è stata scelta la strada di mezzo. Da tutti i soggetti chiamati a esprimersi su questo violento fantasma di cui si erano perse le tracce dal suo arrivo in Italia. Dai periti del tribunale, che hanno arzigogolato profili riconoscendone un vizio parziale di mente, evidenziando che la sua capacità di intendere al momento dei fatti «non era totalmente assente» e che quella di volere era «sufficientemente conservata», che a scatenare la violenza di Kabobo «la patologia ha avuto un ruolo importante», ma «non puo' dirsi che la malattia abbia agito» al suo posto. Al pubblico ministero che chiedendone la condanna - 20 anni - sottolineava come l'imputato avesse «agito con lucidità» pur riconoscendone «la schizofrenia di cui soffre». E per ultimo il gup, che ha accolto in pieno le indicazione degli esperti e della Procura, limitandosi ad applicare l'elementare aritmetica della giustizia.
Mezzo matto, dunque, Adam Kabobo. Un mezzo matto ora imbottito di psicofarmaci che ne hanno sedato le allucinazioni, soffocando quelle voci che «mi dicevano di uccidere come in Africa», che «mi dicono che io sono il creatore del mondo», che lo convincono «che sono i bianchi a ridurmi così». E che ieri, al momento della lettura della sentenza, l'hanno lasciato impassibile, quasi assente. Cosa dice Kabobo? Niente. «Mi senso solo», ha confessato all'interprete nell'ultimo colloquio in carcere. Ma proprio in carcere il ghanese ha cercato di ammazzare il compagno di cella, perché Kabobo è sì squilibrato, ma è soprattutto pericoloso. E a farne tragicamente le spese sono stati Daniele Carella, di 21 anni, Alessandro Carolé, di 40, ed Ermanno Masini, 64. Tutti e tre uccisi a colpi di piccone poco più di un anno fa nelle strade del quartiere milanese di Niguarda. E poi altre due persone che quella mattina rimasero miracolosamente (solo) ferite, e per le quali ora Kabobo dovrà affrontare un altro processo per tentato omicidio. «È quello che mi aspettavo - racconta deluso Andrea Masini, il figlio di una delle vittime -. Per la giustizia italiana questo è il massimo, anche se per me è insufficiente. Ora vedremo se Kabobo sconterà davvero 20 anni». E comunque «quello che è successo è colpa dello Stato, perché a uccidere mio padre è stato un irregolare, un clandestino».
Dalla Lega a Fratelli d'Italia a Forza Italia, infine, la critica alla sentenza è unanime.
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