Il verdetto della vita: Omar riabilitato Erika emarginata

Lui fa il barista e va pure in tv. Lei vive nel Bresciano e si tormenta: "Mi riconoscono e nessuno mi dà lavoro"

Erika de Nardo in comunità Exodus
Erika de Nardo in comunità Exodus

Dopo aver bruciato il suo futuro prima ancora di cominciarlo, Erika sta sperimentando quanto sia difficile bruciare il proprio passato. Tra poche settimane, il 21 febbraio, saranno dodici anni esatti dalla tenebrosa serata di Novi Ligure, quando lei diciassettenne, bambina troppo cresciuta, o ragazza troppo bambina, trucidò in complicità con il fidanzato Omar la mamma e il fratellino, nella villetta a schiera dov'era cresciuta tra gli agi e gli affetti, forse troppi, forse inutili.
Ormai donna, quasi trentenne, Erika pensa oggi di non avere più niente a che spartire con quella prima vita buttata via. La nuova Erika guarda da fuori e da lontano ciò che era, ciò che è riuscita ad essere in una sera, e fatica a realizzare. Più volte, nella comunità sul lago di Garda dove ha cercato una nuova strada, dopo un carcere ritenuto da molti troppo breve, questa seconda Erika è sbottata con la sua guida spirituale, don Mazzi: «Ma se io non ho il coraggio di uccidere nemmeno una formica, come ho potuto fare ciò che ho fatto?».
Sarebbe perfetto, dopo il pentimento e l'espiazione, che noi uomini riuscissimo davvero a voltare pagina, lasciandoci indietro le colpe e gli errori, sbattendo la porta alle nostre spalle. Dodici anni dopo, mille cambiamenti dopo, Erika sta però verificando ogni giorno quello che tutti nel proprio piccolo o nel proprio grande imparano strada facendo: il nostro passato non si stacca mai da noi. Inutile allungare il passo, ci segue come l'ombra.
In un bel reportage sulla Stampa, Grazia Longo ha raccolto lo sfogo tra il sorpreso e l'esasperato di questa Erika due, la redenta: «Basta, non ne posso più. Io non sono più quella ragazzina, sono cambiata. Eppure non posso lavorare, non posso guadagnarmi da vivere come gli altri. E sa perchè? Perché alla fine arriva sempre qualcuno che mi riconosce e mi dà il tormento».
È molto dura la seconda vita, quando ci si gioca così male la prima. Erika ha avviato già da tempo le sue prove tecniche di normalità. I risultati non sono esaltanti. Vive sola in una villetta a schiera, sempre in zona bresciana. Per occupare il tempo, dà una mano in una selleria, coltivando in qualche modo la passione per i cavalli scoperta in comunità. I suoi sogni migliori, raccontati nei giorni della riabilitazione, sono al momento svaniti: non è riuscita a insegnare, non è riuscita a partire come volontaria in missioni lontane. Ora coltiva un unico sogno, assillante e impellente: inventarsi una vita normale, anonima, tranquilla. La vita che aveva a portata di mano, che i suoi genitori le stavano apparecchiando, ma che all'epoca delle gioventù svitata non le sembrava niente di speciale, tanto da annientarla a coltellate.
La pace impossibile del dopo. Erika ci sbatte la testa e si chiede quando mai il supplizio allenterà la presa. Quando le riuscirà davvero di ricominciare, almeno con un lavoro vero. Quanto appare diversa la sua condizione rispetto a quella di Omar, l'amore della prima vita. Trent'anni a maggio, lui ha già ristrutturato l'esistenza e la abita apparentemente sereno. Ha una nuova compagna, lavora stabilmente come barista, ogni tanto sfila in televisione, invitato qua e là.
Sono diverse le due traiettorie, dopo quei primi passi in comune, non tanto perché siano diverse le loro colpe. È tutto diverso fuori, attorno. Il mondo degli altri sembra esercitare una giustizia postuma, disarticolata dalla giustizia che li ha portati entrambi in galera per lo stesso delitto feroce. Mentre una sentenza ha riconosciuto soltanto differenze sfumate e marginali tra i crimini dei due ragazzi di allora, sedici anni a lei e quattordici a lui, la società sembra puntare tutto su quelle sfumature per applicare il suo verdetto ai due adulti di oggi. Erika fu il cervello diabolico del delitto, Omar il suo succube e plagiato esecutore, come un'altra vittima. Ciò che per la legge è quasi irrilevante, per la vita diventa decisivo e indelebile.

Erika paga ancora, pagherà a lungo, pagherà sempre. Omar ha già pagato, ha pagato abbastanza, non pagherà più. Si dice che sia umano e inevitabile, un risultato di questo genere. Forse sarebbe il caso di chiedersi se sia giusto.

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