Sono giorni che il mondo si racconta bugie sapendo di raccontarsele. Sul caso Datagate, siamo passati dalle notizie alla propaganda e dalla propaganda all'ipocrisia. Un'enorme, gigante, abnorme ipocrisia. L'indignazione con gli Stati Uniti perché gli agenti segreti di Washington hanno spiato, e probabilmente spiano, l'Europa sfiora il ridicolo. Le richieste di spiegazioni sono una pantomima da film di cassetta. I motivi sono due: 1) le spie, per loro stessa natura, non possono fare altro che spiare, 2) controllare gli alleati è prassi consolidata e scontata. Fa parte del pacchetto, lo sanno tutti e lo fanno tutti.
Non è banalizzare, quanto il contrario: spiegare una banalità. Attorno agli sviluppi delle rivelazioni di Edward Snowden, l'ex analista Cia che ha tradito il suo Paese svelando l'esistenza di un gigantesco programma di raccolta dati, interno ed esterno, si sta sviluppando un dibattito surreale. Le diplomazie che s'affrettano a prendere le distanze da pratiche che hanno fatto la storia della politica estera: cercare informazioni su chiunque, per esempio. Ma qual è il problema vero? Qual è la differenza? L'ipocrisia globale sta nel fatto che l'unica novità qui è che ciò che di solito è conosciuto a governi, ambasciate e consolati adesso è di dominio pubblico. Ma il paradosso è che a scandalizzarsi sono proprio governi, ambasciate e consolati. C'è da stupirsi dello stupore. Sembrano quei genitori che commettono le stesse marachelle dei figli ma che, calati nel ruolo di genitori più che nella realtà, sgridano i bambini per il solo gusto di farlo. Il risultato è pari allo zero: pensate che dopo tutte queste parole cambieranno le regole dello spionaggio? Alla base del lavoro di un agente segreto c'è la diffidenza anche nei confronti degli amici. Durante le guerre mondiali, gli alleati si spiavano come forsennati. D'altronde verrebbe da ricordare ai falsi ingenui che Stati Uniti e Gran Bretagna combattevano fianco a fianco con l'Unione Sovietica di Stalin, senza mai fidarsi fino in fondo e cercando di spiare in ogni situazione. Siamo all'«elementare Watson» delle agenzie di sicurezza nazionale. Chi si indigna sembra un marziano caduto sulla terra al quale come primo assaggio della natura umana viene chiesto di guardare il film Le vite degli altri. Ma chi ha vissuto qui e adesso fa la verginella dello spionaggio raggiunge vette di perbenismo che sfociano nel grottesco.
Sì, è un'ovvietà che vale la pena ripetere: il mondo dell'intelligence è pieno di spioni che controllano tutto. È il loro lavoro. Non esistono amici, nemici, rivali, concorrenti. È giusto così e la dimostrazione arriva proprio dal caso Snowden: il nemico di un Paese o di più Paesi si nasconde spesso al suo interno, a volte fa parte di quegli ingranaggi che dovrebbero portare la sicurezza e che la minano. Ma il paradosso dei paradossi di questa vicenda è un altro. È che si sta perdendo di vista il problema. E il problema qui non è che l'America spia l'Europa e gli altri alleati. Il problema è Snowden. Il problema è la debolezza di un sistema di intelligence che viene messo in crisi da una persona. È la voragine che si è aperta nella sicurezza nazionale americana e quindi globale. Invece di criticare fintamente gli Stati Uniti perché i loro spioni spiano, bisognerebbe fustigare Washington perché in un anno s'è fatta raggirare prima dal soldato Manning, che ha dato vita a Wikileaks, e ora da Snowden, che ha fatto nascere il Datagate. Francamente questo non è degno della prima potenza mondiale. Il resto sono chiacchiere ed esercizi di stile. Finirà con Obama che spiegherà l'ovvio e gli altri governi che diranno: ok, tutto a posto.
Ciò che rimarrà è il nodo vero: se la più grande macchina di sicurezza nazionale del mondo, cioè quella americana, è così debole, siamo tutti più insicuri. Snowden è la luna, gli 007 che controllano gli alleati sono il dito che la punta. Il mondo sta solo guardando la cosa sbagliata.
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