Roma Controllare le spese delle Regioni, tagliare il ricco vitalizio dei consiglieri regionali, ridurne il numero e gli stipendi, impedire gli sperperi? Il decreto taglia-sprechi, approvato dal governo il 10 ottobre, è approdato alla Camera per la riconversione in legge in 40 giorni ed è già subito una prima clamorosa bocciatura.
Non sorprende che, già nel primissimo passaggio, le cose siano andate storte. Alla commissione bicamerale il decreto è stato bocciato in più punti, a cominciare dalla sorveglianza della Corte dei conti. Il fatto è che, il provvedimento, a Montecitorio, si trova di fronte un plotone di circa 200 deputati ex consiglieri regionali, ai quali è richiesto di andare contro i propri interessi per il bene della collettività. E che, si dice, si stanno dando molto da fare per affossarlo definitivamente.
Viene quasi da ridere, dopo le ultime prove di spese pazze e ruberie indecenti, in tempo di crisi, date dalla onorevole casta locale, che ha in Fiorito-Batman il suo eroe.
Il decreto «tagliasprechi», insomma, sta sullo stomaco a molti, a Montecitorio. E quando supererà le forche caudine della Camera approderà a Palazzo Madama, dove l'aspettano, penna tra i denti, altri 80 ex consiglieri regionali, attualmente senatori.
Come si può sperare che non metteranno i bastoni tra le ruote, e rinunceranno generosamente ad un bell'assegno che varia molto ma è sempre cospicuo e, al netto, può arrivare facilmente tra i 4 e gli 8 mila euro? Su quel vitalizio, che si somma al lauto stipendio di parlamentari e si cumulerà con la loro ricca pensione, deputati e senatori ci contano molto.
«La cosa è delicata - spiegano a Montecitorio - si tratta di toccare diritti acquisiti». Come è successo, senza tanti complimenti, a tanti cittadini comuni, per non parlare dei soliti esodati, che si sono visti posticipare di anni la pensione, tagliare anche miseri stipendi e povere indennità.
Il decreto che vuole far saltare i vitalizi d'oro e ripristinare i controlli sulle spese delle Regioni, aboliti dalla riforma del Titolo V della Costituzione, dovrà vedersela dunque con un partito trasversale ai partiti, quello degli «ex» che i privilegi se li tengono stretti. E rischia di rimanere impantanato nelle secche degli interessi personali o stravolto da quelli politici di categoria.
Il terzo step potrebbe essere più difficile ancora, visto che saranno le stesse Regioni a dover fare delle leggi ad hoc. Ma qui c'è la spada di Damocle perché, in caso contrario, lo Stato taglierà i contributi.
Al momento, il provvedimento è da 15 giorni all'esame della commissione Affari costituzionali e il presidente Donato Bruno ha tutta l'intenzione di farlo marciare dritto. Ci sono state le audizioni di illustri docenti universitari, dal presidente emerito della Corte costituzionale Ugo De Siervo al giurista Vincenzo Cerulli Irelli. Per la settimana dal 5 novembre il testo è atteso in aula per l'approvazione, prima del passaggio al Senato.
Solo nella commissione Affari costituzionali, gli «ex» sono parecchi. Dal leghista messinese Matteo Bragantini, con le sue due legislature all'assemblea regionale siciliana (la più ricca) ad Anna Maria Bernini del Pdl che, come la collega Isabella Bertolini, viene dalla Regione Emilia-Romagna; da Paolo Fontanelli del Pd che dal '91 ha avuto il seggio in Toscana a David Favia dell'Idv che sedeva alla Regione Marche; da Pierangelo Ferrari, eletto due volte in Lombardia al pidiellino Pietro Laffranco ex consigliere dell'Umbria e c'è anche quel Mario Tassone dell'Udc che pochi giorni fa ha scatenato le polemiche affermando che il suo vitalizio di parlamentare di 6.800 euro era «molto modesto».
La logica che ispira il decreto è la stessa che ha riguardato i parlamentari. Se loro sono stati obbligati a tirare la cinghia (si fa per dire) e subire un piccolo restyling dei privilegi, i consiglieri regionali dovranno almeno adeguare allo stesso modo il sistema pensionistico.
In sostanza, dovrebbe ottenere il vitalizio solo chi ha almeno 10 anni di mandato e non come ora chi ha varcato la misera soglia dei 2 anni, 6 mesi e un giorno (vedi il caso Nicole Minetti).
Poi, il diritto dovrebbe scattare al sessantesimo anno, come per gli italiani normali e non come per il famoso Fiorito che l'otterrebbe solo a 50, dopo 7 anni e mezzo di consiliatura.
L'entità, infine, si dovrebbe stabilire su base contributiva e non più retributiva, in base ai contributi versati e quindi in rapporto agli anni di lavoro.
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