Sarebbe il momento di mettere un punto e riconoscere la pura verità: sul caso Yara non ci stiamo capendo più niente. Tre anni dopo la sua morte, la situazione è completamente fuori controllo. È fuori controllo il corso delle indagini, è fuori controllo il fiume carsico delle nostre emozioni.
In questo buco nero che è il delitto di Brembate, tanto più tetro perché tanto più vuoto, ormai si procede per ossessioni. La prima, che le sovrasta tutte: l'ossessione del Dna. Partendo dalla traccia organica lasciata sui poveri resti di Yara, l'indagine è arrivata sulle montagne di Gorno, ha individuato il padre dell'assassino, ha concluso che il mostro è un suo figlio illegittimo. È l'unica certezza, sembra l'unica certezza. Da qui, però, si apre il vuoto. Da qui ci si perde nell'ignoto. Questo figlio illegittimo potrebbe essere chiunque. L'Italia ha cominciato a immaginarlo ovunque. Fino agli estremi più penosi e più impensabili. Un'anziana madre del Milanese, dopo mesi di angosce e di fantasmi, non ha più retto e tramite un'amica si è rivolta ai carabinieri di Como. La liberassero una volta per tutte dalla sua ossessione, declinazione personale della grande ossessione collettiva, cioè il terrore di avere dentro casa quell'essere abominevole, capace di infierire su una povera ragazzina di Brembate, nell'indimenticata sera nebbiosa del novembre 2010. Da tempo, da quando aveva visto in televisione la foto dell'autista di Gorno, definito ufficialmente padre dell'assassino, un tarlo feroce le aveva rovinato la vita. Più guardava suo figlio adottivo, più lo trovava somigliante a quel padre. E se fosse lui, e se fosse questo figlio dalle origini confuse il killer spietato, la belva che tutti cercano, il demonio sparito nel nulla? Mio Dio, combaciano anche i tempi, potrebbe davvero essere lui...
Siccome questa inchiesta disperata, partita malissimo, quindi ricoperta di pesanti critiche, con il tempo è diventata la madre di tutte le inchieste, nessuno si sognerebbe più di trascurare un solo dettaglio. Tanto meno di ignorare una madre angosciata che dubita del figlio adottivo. Per lui, l'immediato esame del Dna: uno dei tanti, uno delle migliaia e migliaia, a setaccio e qualche volta anche un po' a casaccio, che hanno segnato questi tre anni di lavoro a tentoni. Il confronto con il Dna dell'assassino, alla fine, ha sollevato l'uomo da un sospetto atroce e ha riportato un minimo di sollievo nei tormenti di sua madre. Ma è facile immaginare quanto sarà dura da qui in avanti superare lo choc, rimuovere le scorie, tornare ad una normale vita familiare. No, nemmeno in questa casa, così lontana e così estranea rispetto al mondo di Yara, nemmeno qui, persino qui, niente sarà più come prima. Mamma, come hai potuto dubitare di me?
E la storia continua. Tra psicodramma e autosuggestione, tra incubi e farneticazioni. L'ossessione non molla, l'ossessione lavora ai fianchi. L'inchiesta ormai procede per inerzia, per dovere d'ufficio, perché non si dica che non le abbiamo provate tutte. Fine a se stessa. Qualunque segnale, qualunque refolo di vento, qualunque supposizione diventa un indizio. E partono i titoli: nuova pista per il caso Yara. L'ultimissima è la scritta sul librone di una chiesa, a Rho: «Informate la polizia, qui è passato l'assassino di Yara. Che Dio mi perdoni».
I segugi si sono subito avventati sulla clamorosa novità. Perizie calligrafiche, ricerca di videoregistrazioni, e naturalmente l'ossessione sovrana, trovare un Dna (domanda molto profana: ma quante ce ne possono essere, su un librone di dediche?). C'è pure un particolare molto intrigante: un fazzoletto trovato per terra.
Tutti aggrappati al fazzoletto, allora. E la sera, via con il titolo dei tigì, sempre quello, sempre uguale, sempre interrogativo: siamo a una svolta? Arrivasse una sera senza punto di domanda, maledizione.
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