Caro direttore, ho letto l’articolo di Giuseppe De Bellis e sono stato colto da sacro furore. Forse perché lui è del Barese e io sono tarantino, e pur essendo con-terronei ci guardiamo da Levante a Ponente e litighiamo da quando finì a mazzate dopo la Grande guerra per chi doveva piantare la statua della Vittoria (nell’occasione, vinsero i tarantini). E poi, si sa, i pugliesi non hanno spirito di corpo come i calabresi o i sardi, ognuno se ne va per i fatti suoi, paesano nel cuore e individualista nella vita. Sia chiaro: De Bellis ha ragione. È vero, esiste una generazione terrona che è salita sull’aereo, è scesa ovunque e ovunque ha fatto fortuna. È vero che l’orgoglio terrone ha messo radici solide e globali, e ovunque vai, un circolo o un gruppo di amici, trovi sempre qualcosa o qualcuno che t’insuffla nell’anima qualche sana bordata di nostalgia, facendo fuoco e fiamme appresso alle parole magiche del dialetto che noi terroni portiamo in dote pure nelle banche di Singapore. Ci sentiamo custodi dello spirito avventuriero, pronti a risalire il percorso fatto dagli antichi greci, le tribù barbare e i popoli normanni che nei secoli sono arrivati a Sud e hanno piantato le tende nella terra del sole. Poi la nostalgia finisce lì, paghi il conto della rimpatriata e torni ai fatti tuoi. Nessuno di noi, terroni emergenti e terroni emersi, vive nel senso di colpa o di sfiga per aver lasciato casa senza troppi arrivederci. Nessuno ci pensa nemmeno a trasportare, insieme alle valigie, sensi di colpa. Ma ecco perché le ragioni di De Bellis nascondono la loro metà oscura sotto il tappeto, anzi la inseriscono come file da cestinare nelle chiavette internet dei ragazzi «globalizzati nel lavoro e nel futuro», quelli connessi all’aeroporto di Bari. Il dramma dei nuovi terroni globali è che sono privi di sensi di colpa. A noi basta pensare che siamo stati più bravi degli altri ad abbandonare la gabbia della controra e possiamo pure tornarci quando ne abbiamo voglia, quando sentiamo la necessità di pizza sole e taranta, tanto il Meridione ci ha dato quel poco che poteva, per noi pugliesi il ricordo degli ulivi, la fortuna dei tuffi in acqua ai primi di aprile, gli gnumareddi e Castel del Monte, l’orgoglio di essere cresciuti in una terra che (parole antiche di Franco Tatò) per un pelo non è diventata la nuova California, dopo che i californiani con il Primitivo ci hanno fatto lo Zinfandel guadagnando miliardi di dollari mentre le nostre vigne, fino a poco tempo fa, venivano vendute a quattro soldi in Piemonte come uva da taglio. Il Sud ci ha dato questo, e noi appena abbiamo potuto siamo scappati. Tagliati i ponti, bruciate le navi storicizzato il ricordo. Uno può dire: ma a te cosa frega? Ci sei riuscito, sei stato bravo a trasformare la tua terronaggine in una sofisticata carta d’identità da esibire ogni volta che ti chiedono quant’è bello lu Salentu, e quando ne hai voglia le orecchiette di mamma che De Bellis rimpiange arrivano col pony express o le vai a mangiare dal bistrot pugliese vicino casa, molto chic e molto smart. Ci raccontiamo, dentro quei bistrot, che la Puglia è stupenda, sì, ma per portarci i figli in vacanza, e ce lo raccontiamo con quelle parole di circostanza con cui consideriamo il vero sfigato chi è rimasto a casa, chi non ha fatto fagotto e non ha avuto fortuna, quello poverino costretto a campare sempre nello stesso posto noioso senza aver assaporato il brivido dello sradicamento. Lo sfigato non è l’emigrato ma l’autoctono, il compagno di banco rimasto «giù», incapace di emanciparsi dalle consuetudini ancestrali che possono piacere a Sergio Rubini, a Franco Cassano e ai troppi teorici delle virtù dell’«andamento lento» meridionali ma che a noi, terroni globalizzati, terroni wireless perché senza radici, possono essere propinate al massimo durante la Settimana Santa. La capa gira, ma pure le palle, ogni tanto. Ma fermiamoci un attimo, Giuseppe. Disconnetti la chiavetta, esci fuori dall’aeroporto e guardati attorno. A pochi chilometri dalle piste, la tua chiavetta potrebbe non funzionare perché non c’è campo. Arriva lì e riflettiamo assieme, per un attimo, senza piagnistei e senza recriminazioni straccione, su questa cifra abnorme: settecentomila emigrati in dieci anni. È un esodo. Siamo come i nordafricani o, se vogliamo essere considerati pionieri della nuova economia, come gli indiani di Bangalore. A forza di stare lontano, faremo proprio come quell’indiano a cui chiesi di quale regione dell’India fosse e lui mi rispose: no, I’m british. Excuse me, sir. Aggiungo io qualche dato: il divario, in termini di Pil pro-capite tra Sud e Centro-Nord oltrepassa ormai i 42 punti percentuali. Il Sud è superato anche da Repubblica Ceca, Slovenia, Malta e Cipro. Gli investimenti esteri hanno registrato una riduzione di 7000 occupati nelle imprese a partecipazione straniera. Il divario infrastrutturale rimane fermo a 25 punti al di sotto della media nazionale. Con l’eccezione di qualche isola felice, i test scolastici disegnano il quadro di un’istruzione che frattura l’Italia in due. Si può andare avanti. Non so se questi dati ci possono autorizzare a parlare di una nuova questione meridionale, o di una questione meridionale che non si è mai risolta anche se è stata espulsa dal dibattito pubblico. Comunque sia, sono dati che mettono spavento e dovrebbero incutere anche dentro di noi, terroni globali col vezzo della vocale aperta, una rabbia pazzesca. E il dubbio atroce che forse noi, i terroni globali, siamo dei traditori, dei disertori che hanno abbandonato il fronte perché avevamo la possibilità di comprarci il permesso di espatrio e una masseria una volta finita la guerra. Girarsi dall’altra parte è comodo, la scusa è pronta: sono dovuto emigrare per colpa di una terra amara e matrigna, per scappare alla disoccupazione e alla depressione intellettuale. Legittimo, eppure impossibile. Io sono vissuto in una città, Taranto, che negli anni Settanta era a piena occupazione, una città dinamica, colta, ricca grazie al siderurgico dove venivano a lavorare dalla Calabria, dalla Basilicata, dalle campagne pugliesi, persino dalle Marche. Una città di immigrazione, pensate voi. Sono io stesso il sangue misto di un matrimonio d’acciaio, mezzo tarantino mezzo genovese. Oggi Taranto è una città di zombie, soffocata dalle polveri sottili, dilaniata dall’amianto, compromessa nell’identità e nella speranza di rifarsi una vita collettiva. Purtroppo ha ragione Caparezza: «Abbronzatura da paura con la diossina dell’Ilva. Qua ti vengono pois più rossi di Milva e dopo assomigli alla Pimpa»... Potessi, farei finta di niente, tanto che posso farci, che possiamo farci? Hai ragione, Beppe, la colpa di questo stato di cose non è del destino o della porca sorte. Il senso civico a sud del Lazio è un disastro. La custodia dei beni culturali e paesaggistici pure: tanto per dire, una delle spiagge più belle di Tropea, Riaci, è stata soffocata nel giro di due anni da una colata continua di cemento, e certamente non sono stati gli Hyksos. Il sistema infrastrutturale è a pezzi. La qualità della classe politica è scarsa, ovunque, o perlomeno sotto la media. La borghesia è un’espressione, quando non evade troppo, della sola dichiarazione dei redditi. Ci sono intere province subappaltate ai poteri criminali. Le elezioni nazionali, è vero, si vincono al Sud perché al Sud il voto è mobile, ma è mobile non per l’esistenza di elettori razionali ma per blocchi di clientele che si spostano da uno schieramento all’altro. Il Meridione non sforna più un ceto dirigente pronto a mettere in campo una visione di lungo periodo, dove si cominci a utilizzare e non dilapidare la manna che ogni tanto scende dal cielo stellato europeo. L’ultima a perdere rovinosamente la sfida è stata la sinistra dei «governatori», da Bassolino a Vendola guarda che disastro. Il Mezzogiorno non va né compianto né esaltato, va salvato, il prima possibile, prima che sia davvero troppo tardi. Ultima chiamata per Terronia. Il Mezzogiorno, registrato l’ennesimo fallimento della politica locale, va commissariato quasi in blocco. Va combattuta una durissima battaglia, casa per casa, ufficio per ufficio, giunta per giunta, per lo scambio tra erogazione delle risorse e rispetto delle regole. Le infrastrutture subito e a ogni costo. Chiudere le università che sfornano ignoranti. Se serve una nuova Cassa del Mezzogiorno, come ha detto Giulio Tremonti, ben venga. Se mai avverrà, in questa gigantesca opera di salvataggio di una comunità spezzata, dove le gambe e il busto sono a Sud e le braccia e il cervello polverizzate altrove, ognuno dovrà fare la sua parte.
Invocare l’obiezione di coscienza sarà difficile. Se i capitali possono rientrare in Italia dai paradisi fiscali, i terroni globali possono rientrare nel Mezzogiorno dai paradisi artificiali. O il Sud o tutti accoppati.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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