Irak, Bush tende la mano ai democratici

Propone al partito rivale «un terreno comune» per un compromesso. Delegazione repubblicana va alla Casa Bianca e parla di ritiro delle truppe Usa

da Washington

Una guerra a salario mensile: ogni trenta giorni si tirino le somme e si decida se continuarla. Questo il testo approvato giovedì sera dalla Camera Usa (221 voti contro 206) a proposito dell’Irak: un documento che garantirebbe il finanziamento solo fino a luglio, poi si vedrà; inapplicabile e surreale, cui la Casa Bianca aveva già preannunciato il suo veto e che non ha la più remota possibilità di trovare la maggioranza dei due terzi richiesta per sormontarlo. Eppure poche ore dopo Bush, pur continuando a respingerlo, ha fatto mostra di considerare come base per la nuova trattativa e un possibile compromesso. E ha dato disposizioni al capo dello staff della presidenza di cercare e trovare un «terreno comune».
Un’offerta sorprendente da parte di un leader noto per la sua intransigenza e che ha fatto gongolare i suoi avversari. «Finalmente viene giù dal suo piedistallo», è il commento del deputato democratico John Murtha, presidente della Commissione competente alla Camera. Un segno della continua evoluzione della situazione politica a Washington. Lo conferma, fra l’altro, il sorprendente appoggio per un’altra risoluzione alla Camera, quella che taglierebbe del tutto i fondi per le operazioni militari e che, pur respinta, ha raccolto 171 voti, un totale impensabile fino a poche settimane fa.
Ma lo spiega soprattutto il crescente malumore dei repubblicani, affiorato di nuovo nelle ultime ore. Una delegazione di leader del partito è stata ricevuta alla Casa Bianca e ha posto una specie di ultimatum: «Bisogna trovare un modo per proclamare la vittoria in Irak e poi andarsene», perché altrimenti il partito «soffrirà» troppo alle prossime elezioni. Doveva essere un incontro confidenziale, ma invece il suo contenuto è stato rivelato da un portavoce della delegazione.
Una indicazione in più che anche i più leali cominciano ad avere dubbi. Un malumore espresso in una serie di «messaggi» di nomi eminenti del Partito repubblicano. Uno dopo l’altra, li hanno raccontati in interviste separate Susan Eisenhower, nipote di «Ike», Theodore Roosevelt, pronipote del presidente repubblicano di un secolo fa, e Peggy Goldwater, figlia del profeta del conservatorismo, l’uomo che aprì la via a Ronald Reagan. Un’altra indicazione, del resto, è venuta poco dopo a un ricevimento della Fondazione Reagan. Presentando il suo ultimo film, Sylvester Stallone, il Rambo degli anni 80, amicissimo di Reagan, si è dichiarato per la prima volta «apolitico».
I repubblicani attivi in politica, tuttavia, evitano di «rompere» con il presidente. Solo pochi finora hanno votato le risoluzioni democratiche in Congresso, nessuno fra i candidati alla Casa Bianca nel 2008. Il Partito repubblicano è tradizionalmente molto più disciplinato di quello democratico e il problema si pone adesso con particolare ansia, soprattutto a causa dei sondaggi che continuano a dare esiti non solo preoccupanti ma anche contraddittori. La popolarità di Bush è caduta ulteriormente questa settimana a un nuovo livello del 28 per cento, pareggiando così il record del XX secolo stabilito sessant’anni fa da Harry Truman, un democratico (che però fu rieletto).
Tutte le inchieste confermano che due americani su tre vorrebbero la fine della guerra in Irak, ma anche che due repubblicani su tre tuttora la sostengono, mettendo così in grave imbarazzo gli aspiranti alla Casa Bianca, che per avere la candidatura debbono vincere le primarie, impresa proibitiva per uno sfidante aperto di Bush.

Se quest’ultimo fosse ricandidabile sarebbe sicuramente sconfitto da qualsiasi democratico; ma non lo è e tutto lascia prevedere che qualunque repubblicano che non si chiami Bush batterebbe il candidato democratico qualunque egli sia. Soprattutto se si chiamerà, come probabile, Hillary Clinton.

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