Iraq, missione compiuta. Ora tocca ad altri il lavoro sporco: difendere la democrazia

Gli americani se ne vanno sul serio. Viva gli americani, o piuttosto abbasso gli americani, come è stato nello stile denigratorio di buona parte del mondo per sei anni, certo è che da oggi il lavoro sporco di difendere la democrazia tocca a qualcun altro. Nel 2003 hanno trovato un Paese povero, infelice, senza un sistema bancario o una catena di vendita, piagato dalla tortura, dallo spionaggio, dalla negazione di qualunque libertà personale. Il denaro della vendita di petrolio, destinato a cibo e medicine per la popolazione serviva ad arricchire ancora il dittatore Saddam Hussein e la sua famiglia, la corte di complici e carnefici.
Quando sono arrivata a Baghdad liberata, marzo del 2003, l'interprete e l'autista che finalmente potevano accompagnarmi in giro per strade e quartieri prima proibiti, mi mostravano Ferrari e Maserati nei giardini delle ville abbandonate dai gerarchi fuggiti, quelle automobili le chiamavano con amara ironia «oil for food», petrolio in cambio di cibo. Sui libri scolastici si imparava solo la gloria e l'obbedienza a Saddam. I terroristi del Medio Oriente venivano foraggiati, addirittura il dittatore iracheno elargiva risarcimenti alle famiglie dei terroristi suicidi palestinesi, agli eroi del terrorismo che aveva colpito gli Stati Uniti l'11 settembre del 2001, che poi tornò a farlo a Madrid e a Londra. Sono passati sei anni e molti errori, tanti morti, chiedetelo alle famiglie dei soldati americani, ma giudicate voi se ne valesse la pena, se oggi il Paese restituito non sia migliore e più sano. Pronunciamo senza timore la parola tanto vituperata: democrazia esportata. È un sollievo.
Dal giorno del ritiro delle forze militari statunitensi dal controllo diretto delle città irachene, spetterà fino in fondo alle forze irachene l'assunzione di rischi e responsabilità che finora hanno lasciato in parte massiccia e ben volentieri ai soldati americani. Vedremo, certamente ci auguriamo, se siano capaci politicamente e militarmente di mantenere un quadro di sicurezza accettabile fino alle nuove elezioni politiche fra sei mesi, nel gennaio del 2010. Il primo ministro Al Maliki, oggi trionfante, si gioca in questo periodo prestigio e possibilità di successo elettorale sull'ordine e la sicurezza.
Negli ultimi due anni, grazie alla cosiddetta «dottrina Petraeus», dal cognome del comandante militare statunitense, lo straordinario generale David Petraeus, è stata spezzata l'alleanza fra terroristi stranieri e capi tribali sunniti, gli iracheni sono tornati a vivere se non ancora nell'agio della normalità in una condizione di riconquista della tranquillità, dopo aver ritrovato una da decenni dimenticata libertà dalla dittatura. Il governo Al Maliki ne ha abbondantemente beneficiato. Ma la caduta dei prezzi del petrolio e la crisi internazionale hanno ridotto le disponibilità finanziarie del governo che deve continuare a mantenere la lealtà dei capi tradizionali e finalmente arruolare in modo ufficiale le fondamentali milizie sunnite.
Al Maliki viene accusato di pratiche autoritarie dai curdi e dai sunniti. Molti parlamentari criticano apertamente i suoi rapporti troppo stretti con i comandanti militari. Il rischio di attentati, magari contro obiettivi diplomatici o uffici delle Nazioni Unite, che da poco sono tornare in Irak, esiste. Già sono ripresi nelle ultime settimane e non per una coincidenza alla vigilia del ritiro americano. Già è deciso che la condizione di massimo allarme debba essere mantenuta, già si può dire che l'annunciata nuova vita del Paese, una volta usciti di scena gli odiosi occupatori, non sarà né semplice né immediata. Prepariamoci a sentire che saranno rimpianti.
In Irak gli americani sono stati circondati da nemici interni ed esterni fin dal giorno della liberazione dalla dittatura di Saddam Hussein, tutti come minimo pronti a scommettere sul fallimento dell'impresa, come massimo impegnati a organizzare guerra civile e attentati suicidi. Nel primo dopoguerra non hanno scelto i giusti comandanti e i diplomatici adeguati. Non avevano neanche gli interpreti che servivano, l'eredità di allegri anni Novanta nei quali né gli Stati Uniti né il resto dell'Occidente si erano preparati a combattere lo scontro di civiltà che si andava organizzando. C'è voluto del tempo. Ma a George W.

Bush resterà nella storia non già il discredito di cui la cronaca antiamericana lo ha facilmente ricoperto, ma un merito, e grande. Dopo l'11 settembre Bagdad era il luogo giusto per dimostrare ai sovvenzionatori del terrorismo che finalmente l'Occidente è pronto a far pagare un prezzo salato a chi li aiuta e li protegge.

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