Israeliani e palestinesi trattano Bush arbitro: «Pace possibile»

Già fissato il prossimo incontro il 12 dicembre a Gerusalemme

da Washington

Fra le grandi speranze e il diffuso, profondo scetticismo, fra le grandi parole e l’immensa densità dei problemi, al vertice di Annapolis un dettaglio rivela, forse, i «piccoli passi» così necessari in ogni pellegrinaggio per la pace nel Medio Oriente. Gli Stati Uniti hanno chiesto a Israele di rispettare in pieno l’accordo che consente il libero transito alle ambulanze palestinesi. E George Bush, parlando nel guardino della Casa Bianca al fianco di Ehud Olmert e Abu Mazen, si è detto convinto che la pace in Medio Oriente «è possibile», e ha promesso che «gli Stati Uniti saranno attivamente impegnati in questo processo».
Il leader palestinese è entrato per primo nella Sala Ovale per il colloquio a quattr’occhi con il presidente americano, il premier israeliano gli ha dato il cambio, infine i tre si sono ritrovati assieme, come a sigillare la comune buona volontà. E anche la comune fretta, almeno apparente: il prossimo incontro è già fissato per il 12 dicembre a Gerusalemme.
Un altro, data non precisata ma «nei prossimi mesi», si effettuerà in Russia, a dimostrazione che anche Putin trova opportuno saltare sul vagone delle trattative, sia esso agganciato a un rapido o a un «locale» con molte fermate. Capotreno, controllore o fuochista (o tutte e tre le cose assieme) è un generale dei marine, James Jones, con una lunga esperienza nella Nato. Un osservatore che dovrebbe essere pronto a cogliere i dettagli pratici, a cominciare proprio dalle ambulanze, che in Palestina e nel Medio Oriente in genere non trasportano soltanto maturi cittadini colti da disturbi cardiaci, ma tante, troppe vittime del terrorismo e della guerra. Hanno parlato di nuovo i portavoce delle due parti, mescolando buona volontà e cautela.
Il negoziatore palestinese Saeb Erakat ha definito «possibilissimo» un accordo di pace entro l’anno prossimo; ma ha aggiunto che ci si può arrivare solo tramite un «pacchetto» che «risolva almeno sei problemi: gli insediamenti israeliani in Cisgiordania, il diritto al ritorno dei profughi palestinesi, la spartizione di Gerusalemme di modo che possa diventare la capitale di due Stati, la definizione delle frontiere, le garanzie della sicurezza e i rifornimenti di acqua». In realtà si tratta di un elenco di ostacoli.
Mark Regev, ministro degli Esteri israeliano, ha ripetuto sì al pacchetto, ma ha evitato di entrare negli argomenti specifici, avvertendo che «ci sono idee differenti in proposito», ma che lo Stato ebraico è pronto a discutere «i temi delicati e problematici». Dove i due contraenti possono invece dirsi tranquillamente d’accordo è nel rilevare l’apporto positivo di tanti Paesi che fino a ieri si erano tenuti estranei ai negoziati, in particolare «Paesi che normalmente non hanno rapporti con Israele».
L’ultima parola, per stavolta, l’ha detta Bush a conclusione del secondo round di colloqui alla Casa Bianca: «La causa è giusta, il momento è giusto».

Lo ha corretto un po’ Condoleezza Rice ricordando che «nel Medio Oriente non c’è mai un momento veramente giusto, ma dobbiamo trattare sui problemi e con i tempi che ci sono dati». Una conferma di ciò che è evidente a tutti: non c’è stato un «miracolo di Annapolis», ma non c’è stato neppure un disastro.

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