Italiani a riposo dopo 31 anni. E l'Inps perde 5,4 miliardi

Nel nostro Paese si smette di lavorare prima che nel resto d'Europa. In tre mesi del 2018 61mila pensionati over 65: sono loro a cui avrebbe fatto gola «quota 100»

Italiani a riposo dopo 31 anni. E l'Inps perde 5,4 miliardi

Nei primi tre mesi del 2018 sono andate in pensione 101.517 persone tra dipendenti, artigiani, coltivatori diretti, commercianti e parasubordinati. Oltre la metà, 61.537, avevano più di 65 anni di età. Se il governo Lega-5Stelle portasse davvero a compimento la sua riforma delle pensioni, queste persone sarebbero potute tutte andare in pensione a 64 anni con 36 di contributi, raggiungendo, in questo modo «quota 100»: risultato della somma dell'età anagrafica e degli anni di lavoro.

Una svolta a U nella politica di innalzamento dell'età pensionabile che l'Italia ha intrapreso ben prima della riforma Fornero. Non bisogna dimenticare, infatti che ci sono stati anni in cui gli italiani andavano in pensione, mediamente 16 anni prima di quanto non succeda oggi. Era il 1980 e la pensione, più che un diritto, era un regalo. Gli italiani, uomini e donne, al compimento dei 50 anni e poco più si ritiravano dalla vita attiva con il diritto (regalo) di incassare una pensione parametrata all'ultima retribuzione e non ai contributi versati. Fin da allora il sistema pensionistico ha cominciato a pesare su tutti gli italiani che, attraverso le tasse, pagavano quelle pensioni. Il risultato di quelle follie è che l'Inps prevede nel 2018 un buco di 5,4 miliardi dopo trasferimenti statali per 108,2.

Per rendere sostenibile il sistema ci sono due strade: aumentare il numero delle persone che lavorano e/o alzare l'età alla quale si ha il diritto di andare in pensione. Sul primo punto: l'Eurostat ha realizzato un'interessantissima statistica, i cui dati sono stati elaborati dal sito di datajournalism Truenumbers.it e la cui sintesi è pubblicata in queste pagine. Mostra quanti anni un cittadino di alcuni dei più importanti Paesi europei trascorre al lavoro. È interessante il fatto che nella statistica siano ricomprese anche le persone che non lavorano, quindi: occupati e disoccupati. A che cosa serve questa statistica? A verificare la sostenibilità del sistema pensionistico. Il risultato è che gli italiani (ripetiamo: occupati e disoccupati insieme) lavorano mediamente 31,2 anni, meno di quanto facciano i cittadini delle altre grandi nazioni europee. Un britannico, per esempio, lavora 38,8 anni; un olandese 40 mentre. L'italiano medio, cioè, lavora meno di un europeo medio da sempre, almeno fin dal 2012 e questo è dovuto sia ad un'età pensionabile più bassa rispetto agli altri Paesi ma anche a una disoccupazione più alta, che abbassa la media. Aumentare le persone che lavorano, quindi, renderebbe il sistema pensionistico più sostenibile quanto l'abbassamento dell'età pensionabile, come vuole fare il governo. Ma abbassare l'età pensionabile senza un aumento degli occupati porterebbe, ovviamente, al disastro il sistema, che già oggi vive alla giornata appeso com'è ai contributi statali frutto delle tasse di lavoratori e imprese.

Vogliamo poi parlare dell'importo medio delle pensioni? Ok, ma prima bisogna affrontare un altro tema che è poco trattato cioè il fenomeno delle doppie, triple, quadruple e addirittura quintuple pensioni. Perché se è vero, come è vero, che gli assegni pensionistici sono bassi è altrettanto vero che 4.596.863 italiani ne incassano due; che 1.180.518 ne incassano tre e che 232.526 ne incassano 4 o più. Quindi: sostenere che «le pensioni sono basse» significa abbastanza poco dato che bisogna verificare se il 33,6% delle persone che ne riceve più di una abbia diritto a farlo. In altre parole: è possibile che i 61.471 italiani che ricevono una pensione superiore ai 5mila euro al mese abbiano più diritti di ricevere quella di chi ne riceve due o tre di importo inferiore ai mille euro.

Su queste pensioni d'oro il governo ha un piano: tagliare la parte che non è coperta dai contributi. A parte le difficoltà costituzionali che si incontrerebbero (come è già successo) e l'impossibilità di calcolare «la parte non coperta da contributi» per i dipendenti pubblici dato che fino a qualche decina di anni fa l'assegno era stabilito dalla legge e i contributi erano solo figurativi, si recupererebbero poche centinaia di milioni di euro (nessuno sa dire quanti per i motivi di cui sopra).

Quei tagli, insomma, non garantirebbero per nulla la copertura delle maggiori spese dovute allo «smontaggio» della riforma Fornero e l'introduzione di «quota 100». La verità è che c'è qualcuno che ha nostalgia degli Anni '80.

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