Jünger entomologo, il "cacciator sottile" che vide negli insetti le radici dell'Essere

La passione del filosofo per gli adorati coleotteri era una ricerca speculativa

Jünger entomologo, il "cacciator sottile" che vide negli insetti le radici dell'Essere

Buprestidenwetter, annotava Ernst Jünger (1895-1998) nel maggio del 1964 sulle coste di Rodi in viaggio verso Xylokastro. E cioè «tempo da buprestidi»: aria secca, cielo azzurro, luce rovente e accecante, il clima in cui escono allo scoperto per godersi il culmine della giornata quelle creature alate e corazzate figlie del sole e del fuoco. (...) Oltre vent'anni prima, nel gennaio del 1942, all'Hotel Rafaël di Parigi, sveglio nel cuore della notte, registrava il battito di un «orologio della morte», il tempo scandito da un animalino del buio e degli inferi: «probabilmente questi tetri segnali si devono a un grosso anobio oscuro. Ne trovai uno l'estate scorsa e lo misi tra gli insetti della mia collezione». Un trofeo, un documento, un memento? Comunque un interrogativo aperto: «Quale senso di vita remota hanno questi suoni - scriveva nel diario parigino - provenienti da un piccolo essere che lavora nel legno secco a un passo da noi?». Saltando indietro di un'altra ventina d'anni si va alla rievocazione di un'altra guerra, quella combattuta nelle trincee del primo conflitto mondiale in cui la caccia sottile offriva all'appassionato «la possibilità di assentarsi, anche solo distogliendo lo sguardo. Questo aiuta a ristabilire un ordine interiore».

Si potrebbe continuare a lungo spigolando dall'opera imponente del filosofo, narratore e cultore, con amabile diletto, delle scienze della natura, le citazioni riferite agli adorati - ai venerati - entomi. Sono parole appuntate sulla pagina come fiori impaginati in un erbario, come coleotteri spillati in una teca cui, anche a distanza di anni, lo sguardo che vi cade «fa l'effetto del risvegliarsi di una radice la cui forza ridà linfa a ramificazioni semi sepolte». Quest'ultimo passo è tratto dalle Cacce sottili, il lungo racconto autobiografico che, compiuto alla fine degli anni Sessanta, compendia la jüngeriana visione del cosmo sub specie entomologica. (...) L'opera del pensatore tedesco è vasta quanto la sua collezione di coleotteri che, a oltre 25 anni dalla scomparsa del collezionista, è ancora là, intatta, custodita a Wilflingen, nei cassettini invetriati del mobile che si sviluppa dall'ingresso della foresteria del castello degli Stauffenberg dove, dagli anni Cinquanta, Jünger fissò la sua ultima dimora terrena. (...) Jünger era un ragazzino quando avviò la sua avventura di «cacciatore sottile» allorché il papà, farmacista e convinto positivista, regalò a lui e al fratello Friedrich Georg, inseparabile compagno di scorribande, l'attrezzatura necessaria: retino, bottiglia di vetro, cesta foderata di torba. L'individuazione delle prede era intuitiva. Ma proprio quell'intuito andò precisandosi con l'allenamento e l'esercizio, non già o non solo in base alle categorie e i parametri della scienza via via acquisiti, bensì con la forza di un riconoscimento, di un'agnizione: «questo sei tu!».

La predilezione per una famiglia, i carabidi, si manifestò assai presto, l'attrazione per quelle concrezioni di materia animata dal carattere ctonio, tellurico, minerale, che brillavano di una luce segreta e preziosa: «come l'ammiccare degli occhi di un vecchio», come «il lampo di uno sguardo di approvazione». Par di vedere la faccia dello Jünger vegliardo sorridere da questa pagina. Il sorriso, appunto, e un entusiasmo giovanile che non si spense neanche in tarda età, lo portarono poi a rispondere all'occhiata dei due generi prediletti. I suddetti buprestidi, veri gioielli tra i coleotteri, creature ignee forgiate nel metallo, ma leggerissime e tiepide sul palmo della mano, risplendenti nello sfarzo dei colori dell'elitra. E le cicindele, luminose, leggiadre, dotate delle zampe lunghissime che ne fanno «corridori alati», degli occhi enormi e compositi che forniscono loro una vista eccezionale, del «becco minaccioso capace di perforare una corazza». Jünger li descrive come campioni, eroi, figure fantastiche, come talismani magici, creature effimere e insieme senza tempo. Ne è incantato, innamorato, e la loro malia non si dissolve sotto la lente del suo microscopio e anzi cresce quando ne fa oggetti di indagine flirtando sapientemente, eroticamente con le scienze. (...)

L'area geografica in cui Jünger si mosse è vastissima, dalle paludi attorno a casa perlustrate da bambino all'Angola, dalla Malacca al Peloponneso, dall'Indonesia alla Sardegna e ripetutamente all'amatissima Carloforte. Ma più che le distanze coperte dal viaggiatore infaticabile fu la discesa nel minimo, nella misura minuta coerente con le proporzioni degli oggetti del suo desiderio a spalancargli una riserva inesauribile. Più si va nel piccolo, più si precisano e moltiplicano le differenze; era come scendere a sondare la profondità delle radici dell'essere senza arrivare a toccarle. Jünger lavorava di lente e pinzette, catturava le sue prede delicate, le disponeva con cura per serie, le descriveva, individuava i loro nomi in base alle tassonomie invalse da tre secoli, in un caso, quello della cicindela juengeria rinvenuta in Africa nel 1966, battezzò il suo trofeo col proprio nome, e pazienza se rimase un esemplare unico, per giunta una femmina. Intratteneva, sempre con il piglio del discente, frequentazioni e corrispondenze con gli esperti dell'epoca, con gli ultimi cultori di una scientia amabilis in via di sparizione. (...) Dei grandi spiriti ordinatori captava, appunto, la potenza dello spirito. Primo fra tutti Linneo, un sacerdote, colui che ha costruito il sistema e ha dato il nome agli esseri della creazione, ma anche Charles Darwin, alfiere di un passaggio d'epoca, quello in cui la natura si fa dinamica e anonima, in cui la creazione entra nell'evoluzione del tempo e la variabile tempo inficia la tenuta del sistema. Di entrambi - Gemelli il primo, Acquario il secondo - offre il profilo astrale, ne presenta fisionomia e carattere in base al segno zodiacale. Di Alfred Russel Wallace condivise l'inclinazione alla meraviglia e il senso per l'eros della natura, di Jean-Henri Fabre lo slancio epico. Di Alexander von Humboldt e Sven Hedin la capacità di conservare nella ricognizione analitica lo sguardo d'insieme, di sentire «il polso della terra». (...) Un piacere singolare trovava Jünger nell'elaborazione dei dati e nella compilazione dei suoi schedari. La partita era sempre la stessa, quella che aveva visto in gara gli spiriti magni sopra evocati. E lo schema, o se si vuole la coreografia, era il medesimo: il rimbalzo costante tra l'uno e i molti, tra l'unità, l'armonia del cosmo, e il dispiegarsi molteplice delle varietà che a quell'armonia si oppone come un attentato e una sfida. (...) «Dunque, tutto questo c'è», esclamava dando voce allo stupore in una riga di Il cuore avventuroso. A catturare quell'essere nel suo spessore, nel suo valore e mistero, era non tanto il retino, lo spillo, o il nome accreditato della specie, quanto il lampo felice di quello sguardo, il prodigio di quell'incontro. Spavento-sospensione del respiro, gioia: in questa successione si consumava tutte le volte la cattura di un esemplare, accensione di un raggio che, per un istante, illuminava un'onda, o un'ala, nel mare dei fenomeni. «Quando? Sempre.

Dove? Dappertutto», da queste risposte si riconosce l'erotico, notava Jünger. E, contemplando i suoi tesori allineati nelle teche di casa, sapeva che il grande gioco del corrispondersi dell'essere e del divenire, dentro e fuori dal tempo, poteva solo continuare.

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