Jamaica Kincaid, memoria individuale e tragedia collettiva

Uno sguardo analitico sui personaggi e l'eco dolente del coro del popolo caraibico

Jamaica Kincaid, memoria individuale e tragedia collettiva

Per avvicinare uno scrittore di medio livello bastano le interviste, i premi letterari, i festival. Per accostarsi alla grandezza, viceversa, contano di più gli amici.

Fu Goffredo Fofi a consigliarmi, nei primi anni 2000, di leggere Jamaica Kincaid. Lessi nell'ordine: Autobiografia di mia madre, Mio fratello e Mr. Potter, che è il più bello dei tre. Poi lessi Annie John, uno dei suoi primi libri. Caraibica, nera, erede di generazioni di schiavi, Kincaid aveva tutto per diventare un'icona in Italia: l'editore (Adelphi), grandi traduttrici come Franca Cavagnoli e Silvia Pareschi, una biografia importante, che sembrava fatta ad arte per finire su riviste e inserti letterari, su magazine femminili e non. Soprattutto era ed è un grande scrittore (odio la parola «scrittrice»). Ma forse il problema sta anche qui.

L'occasione per parlare di lei ci è offerta dalla ripubblicazione presso Adelphi di Biografia di un vestito (pagg. 48, euro 5, traduzione di Franca Cavagnoli), contenente due racconti: quello che dà il titolo al libro e Quando ho rimesso insieme i pezzi. Il riferimento al racconto biografico è evidente fin dai titoli delle sue opere, compresi tutti e due quelli del libretto, ma più che indicare un genere letterario allude a una necessità straziante e disperata. E benché in apparenza nessun coro si affacci alle sue pagine - a differenza di quanto avviene in un altro grande caraibico, Derek Walcott - è proprio dal coro, che canta silenzioso nelle sue pagine, che si deve cominciare.

Pochi popoli, nella storia, hanno sofferto la schiavitù e la miseria come quello caraibico. In un inferno travestito da paradiso, un popolo tradotto già in catene dall'Africa si trovò pressoché annientato dalla furia dei potenti, di cui si conservano ancora, qui, le lingue imbastardite. «Grenadiers, à l'assaut, ça qui mourit, ça affair a yo», echeggia nel suo precario francese un canto militare: granatieri, all'assalto, e chi muore sono affari suoi.

Così deve essere stata, fin da principio, l'esistenza di questo popolo. Se, poi, eri una donna il destino era segnato, e se avevi la disgrazia di una grande intelligenza, peggio ancora: non restava che la fuga. Così è stato per Elaine Cynthia Potter Richardson, poi Jamaica Kincaid, fuggita a sedici anni dal labirinto dei Caraibi e approdata negli Stati Uniti come ragazza alla pari determinata a diventare una scrittrice, perché solo il racconto del nonsenso della vita - il racconto onesto, scrupoloso, furiosamente fedele al dettaglio - può riaprire per la vita uno spiraglio di senso.

La scrittura di Kincaid si concentra, ossessiva, entomologica, sui personaggi presi in esame, ma questo non significa che un soffio del paesaggio retrostante, un'eco del coro silenzioso, non popoli le sue stanze, le sue cucine, le sue strade polverose. Nel bellissimo Biografia di un vestito un abitino di popeline, cucitole dalla mamma per una fotografia poi scattata nel giorno del suo secondo compleanno, il tempo incosciente (non felice, non infelice) dell'infanzia rivive nella infelice ma lucida coscienza del presente. L'arte di Kincaid scannerizza un mondo chiuso, interrogando senza pietà una memoria individuale (la sua) da cui tuttavia fuggono brandelli di tragedia collettiva, come quando si fa cenno dell'ago con il quale la madre cuce il vestito, e che la madre portò con sé a sedici anni (la stessa età della sua fuga negli Usa), migrando da Dominica ad Antigua. Un ago che è una specie di preghiera, pur senza un dio, così come lo è la fuga di Kincaid da un mondo senza parole verso una vita dura ma piena di parole.

Una preghiera, sì. Come nel finale di Mr. Potter, quando la figlia Cynthia piange la morte di questo padre analfabeta, che nulla sapeva di lei. «Sentite Mr. Potter - scrive - proseguire nel dedalo della sua vita in completa innocenza, senza mai sapere come fosse simile a chiunque altro e senza rendersi conto di quanto sia ordinaria l'unicità della vita come si manifesta in ogni individuo (...). Sentite Mr. Potter! Guardate Mr. Potter! Toccate Mr. Potter! Mr. Potter era mio padre, il nome di mio padre era Mr. Potter».

Raccontare vuol dire proprio questo: raccontare l'ordinaria unicità, la stupida enorme unicità di una vita e - aggiungo - del coro che la accompagna sempre, spesso silenzioso, spesso straziato.

Tutto ha Jamaica Kincaid per essere un'icona, se non fosse che è un grande scrittore, uno scrittore di necessità, e come tutti i grandi scrittori di necessità ci parla di noi parlando di mondi lontani, e come tutti i grandi scrittori ci dice quello che non vogliamo sentire, aprendoci sempre - come diceva una vecchia canzone - la porta sbagliata.

Nella narrativa di Kincaid risplende assai meglio che altrove l'insostituibilità della voce femminile nel racconto (per tutti, non solo per le donne) della tragedia del mondo. A questo proposito ho fatto un conticino. Tra il 1901 e il 1950 le donne insignite del Premio Nobel per la Letteratura sono state cinque, una delle quali italiana (Grazia Deledda). Tra il 1951 e il 2000 sono state quattro, tre delle quali nei soli anni Novanta. Dal 2001 a oggi sono state otto, una percentuale di sicuro maggiore ma comunque bugiarda in un tempo in cui la maggioranza degli scrittori (e dei lettori) è di sesso femminile.

Resta il fatto che leggere è un'azione che, come lo scrivere, richiede non solo sagacia ma anche coraggio.

È difficile, difficile guardare quello che c'è davanti ai nostri occhi. Questo ha sempre fatto Kincaid: prendere pezzi della sua vita e guardarli, sfidando il lettore a fare la stessa cosa con la propria. Leggere è questa cosa.

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