Scaduto il contratto sociale, e non più rinnovabile a causa della manifesta insoddisfazione delle (ipotetiche fra le ipoteche) parti contraenti, e chiuso a doppia mandata nel cassetto dei sogni lo stato sociale, Rousseau in versione Giano bifronte ruotò di 180 gradi la sua testolina ormai canuta e prese a osservarsi nei panni di Jean-Jacques. Ciò che vide non gli piacque, dunque lo considerò degno di essere romanzato. L'operazione richiese l'invenzione di un deuteragonista, subito individuato nel presunto (forse persino sperato...) complotto ai suoi danni, sicché Le confessioni e gli altri scritti affini e collaterali assunsero il rango di una diffusa memoria difensiva, peraltro arricchita da abilissime e strategicamente geniali auto-accuse volte a generare il pensiero controdeduttivo del lettore. Inoltre occorrevano due impulsi, uno psicologico e l'altro patologico, che giustificassero le molte azioni riprovevoli di JJ: ed ecco schierati in campo, da un lato lo spirito di emulazione, l'engouement per i cattivi esempi, e dall'altro una sorta di «crisi di assenza» o «crisi epilettica», insomma un momentaneo black out delle capacità di discernimento. Infine serviva ciò che a prima vista parrebbe paradossale, in un contesto memorialistico, ovvero l'oblio, l'arte del dimenticare che desse valore, mimetizzandola nei vari contesti, all'arte della memoria.
Sistemati sulla scrivania i suddetti strumenti di lavoro, il nonno (putativo) dalla Rivoluzione francese impiegò gli anni da pensionato a rivalutarsi come scrittore, dopo aver pagato decenni di contributi volontari da filosofo. E adesso siamo noi a spiare chi spiò se stesso, spesso vedendosi riflesso negli specchi deformanti, per oltre mezzo secolo. Il titolo del saggio di Bartolo Anglani, L'altro Rousseau (Le Lettere, pagg. 622, euro 35), paga il pegno di un aggettivo inflazionato, ma in compenso il sottotitolo acchiappa assai: «La memoria, l'impostura, l'oblio». Perché questo fu il Rousseau autobiografo: un pendolo in moto perpetuo fra ricordo e dimenticanza mosso da menzogne, omissioni, non-c'ero-e-se-c'ero-dormivo, distrazioni di comodo e scene mute. Per cogliere come Rousseau sia agli antipodi rispetto a Proust, basta notare che mentre il secondo alimenta la sua narrazione con cose viste, odorate, mangiate (la celebre madeleine), il primo fa perno su azioni (il nastro rubato, il pettine rotto...), e che mentre Marcel procede, sebbene mai in linea retta, verso un'unica direzione, JJ è maestro del voltafaccia e/o della giravolta, introdotti da un semplice «tuttavia» (cependant).
Anglani, citazionista di vaglia che si tratti del soggetto in questione o dei suoi innumerevoli interpreti e studiosi (al netto degli idillici e degli psicologisti, che aborre), ci suggerisce tre immagini del Rousseau confessionale: lo sbalestrato in lotta contro i mulini a vento da lui stesso inventati, come il Don Chisciotte di Cervantes; il trasformista compulsivo, come il Leonard Zelig di Woody Allen; e soprattutto il geneticamente bugiardo, come Pinocchio. Ma il pezzo forte della sua analisi resta quel magico verbo, oublier.
«L'oblio - scrive - è il filtro che rende visibile il passato decomponendolo in frammenti e impedisce all'occhio di essere abbagliato dall'eccesso di presenza». Un filtro che funziona come un caleidoscopio, nel senso che trasforma pezzettini di caso in una sontuosa e simmetrica architettura.
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