Da Jesus Christ Superstar a Hair Così è nato il neo-melodramma

L’idea è semplice, folle, esteticamente meritoria e concretamente impervia: dunque affascinante. Eccola: inventare da capo l’opera lirica, sottraendola all'élite dei melomani per portarla alle masse. Come? Abolendo nei nuovi spartiti do di petto, cabalette e concertati, utilizzando invece lessico agevole e aggiornato del pop e del rock, più praticabile per le orecchie del pubblico meno colto e per le voci dei cantanti di canzoni. Poco da spartire, checché ne scriva qualche cronista poco edotto, col musical, dove il canto s’alterna alla recitazione: come il suo progenitore, il melodramma, l’opera pop non contempla parole che non siano cantate.
Sulle prime l’idea non seduce le major discografiche, che vi avvertono troppa puzza di cultura e scarso aroma di soldi: ma poi scoprono che ne possono sortire, al contrario, montagne di quattrini, e l’utopia depone le ali per tramutarsi in business.
Purtroppo non è l’Italia, terra di Rossini e Puccini, a battezzare la nuova idea. È vero, all’alba degli anni ’60 Gino Paolo e Arnaldo Bagnasco progettano di trarre un’opera dal Viaggio sulla Luna di Cyrano de Bérgerac, ma il progetto resta tale. Invece è dall’Inghilterra che l’intuizione decolla. È il 1970 quando Andrew Lloyd Webber, 22 anni, compone Jesus Christ Superstar, ovvero gli ultimi giorni di Cristo evocati in chiave rock, con reminiscenze colte e pizzichi di sperimentalismo. Ma già l’anno prima gli Who avevano scritto Tommy, opera rock riferita a inquietudini esistenziali ben più contemporanee, che divenne anche un film di Ken Russell con Tina Turner, Elton John, Oliver Reed, Jack Nicholson, Ann Margret. Gli stessi Who realizzeranno poi Quadrophenia, di scena questa volta l’epopea dei Mods, protagonisti della Londra ribelle, alternativi al più rarefatto anticonformismo beatlesiano.
Dunque il transito tra classicità e attualità è continuo. E prosegue in Hair, nuova opera rock che diventerà anche un film di grande successo, ispirata alla poetica hippy. Più avanti The Wall, dei Pink Floyd, offre una sintesi alienata di tutto ciò: nasce come disco, poi va in scena a Pompei, quindi Alan Parker ne trae un film con Bob Geldof e nell’89, sulle rovine del Muro di Berlino, Roger Waters ne offre a 250mila spettatori una straordinaria versione teatrale, mobilitando Van Morrison, gli Scorpions, Joni Mitchell e altri grandi.
E l’Italia? Riccardo Cocciante sul finire degli anni ’90 ricava dal romanzo di Victor Hugo il fortunatissimo Notre Dame de Paris, milioni di spettatori e di dischi venduti. Segue per il solo pubblico francese Le petit prince, dal visionario romanzo di Saint Exupéry. E ora un nuovo capolavoro, Giulietta e Romeo, che il poeta Pasquale Panella ha ricavato da Shakespeare. La musica? Spazia tra medioevo, Rinascimento, melodramma e canzone popolare, e gridare al capolavoro non è azzardato.

Intanto Lucio Dalla riprende la vicenda di Tosca, narrata nel dramma di Sardou e nell’opera di Puccini, dilata vicende e personaggio e compone musiche del tutto nuove, nel segno di un pop raffinatissimo. Finché un’altra grande autrice, Gianna Nannini, tramuta in magnifica opera rock la tragica vicenda di Pia de’ Tolomei, attinta da Dante, dall’Aretino e dalla tradizione popolare toscana.

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