Due appestati in un colpo solo. Un colpaccio. Gran botta d'adrenalina per gli amanti del genere «i peggiori nemici di Bernard-Henri Lévy sono i miei migliori amici». Emir Kusturica scrive una specie di romanzo, girato e montato come uno dei suoi film stralunati, dove il protagonista è Peter Handke, anzi i protagonisti sono entrambi, perché recitano fianco a fianco dalla stessa parte, ovviamente quella della Serbia, la loro Mancia metafisica e universale, terra di spiriti forti (sia nel senso di caratteri che di humour, per non parlare delle grappe), dove i due cavalcano controvento e contro la «malavita globalizzata». Mentre la civiltà la nostra, non la loro è in fin di vita, vittima dell'«ideologia del comfort». Si sente tanto la mancanza di Nole Djokovic, il tennista serbo che perde solo quando ha tutto il pubblico dalla sua parte - odiatelo e vincerà in eterno.
«I nemici non ci mancano», constata infatti compiaciuto ad un certo punto il regista. «Siamo legati dalle guerre degli anni Novanta», gli fa eco Peter, lo scrittore austriaco che per Emir «assieme a Nietzsche è il maggior stilista in lingua tedesca» e «come Nietzsche, ha cancellato i confini che separano le passioni e il tormento di vivere». Si trovano a Stoccolma, nei giorni in cui Handke nel 2019 riceve il Nobel. E ha voluto lì al suo fianco Emir, l'amico più ingombrante, giusto per infierire sulla bile di chi non ha digerito che venisse laureato l'aedo della serbitudine, autore di libri micidiali come Un viaggio d'inverno ovvero giustizia per la Serbia, il «negazionista di Srebrenica», colui che definì Sarajevo «una città sotto blocco, non assediata» e parlò di «sofferenze montate», il testimonial preferito di Slobodan Milosevic, l'intellettuale proscritto dagli intellettuali proprio per le sue posizioni sulla guerra in Bosnia e sul Kosovo. L'angelo ribelle (La nave di Teseo, pagg. 170, euro 20) è appunto Peter Handke, raccontato come un supereroe umanista e impavido («non ha accettato di essere immorale ed è intervenuto, si è immischiato»), l'unico che decise, senza mai un'abiura, di stare dalla parte dei reprobi, «compagno di viaggio di un popolo sulla via della miseria, sulla quale è stato spinto a forza», scrive il regista, nato in una famiglia musulmana di Sarajevo («nero calderone della Storia») e convertitosi al serbismo ortodosso, fino a battezzarsi col nome di Nemanja. Ma questo che vorrebbe essere il primo romanzo di Kusturica - tradotto per ora solo in Italia - è l'ennesima sua operazione artistica di romanzare la «questione serba», ritornare sul luogo dei massacri per rivangare la criminalizzazione del popolo serbo ed elevare la Serbia a patria di tutti gli scorretti apolidi, buen retiro per reazionari d'ultima generazione, anti-Nato di destra e di sinistra. Quella Serbia che, come la vecchia Jugoslavia, «confina con l'infinito». L'alibi è quello d'essere un artista, che può parlare delle guerre balcaniche degli anni Novanta senza dover considerare la realtà dei fatti, la quale non dà scampo alle responsabilità genocide di gente come Arkan, Karadzic o Mladic, solo per citare i più noti nel pantheon ultranazionalista. E così non scalfisce i tanti torti di coloro che vedono nella Serbia un Paese non omologabile e quindi da ghettizzare. Si mostra scorretto prima di tutto nella somma dei morti, dove vede lo zampino dell'ingenuità serba: «Loro hanno subito contato le vittime, e noi no», scrive, come se si trovasse in una kafana di Belgrado a bere con la sua band The No Smoking Orchestra. «È la magnanimità serba. Noi non abbiamo contato i milioni di connazionali massacrati, facendo di noi stessi, le vittime, un popolo criminale».
Un libro assolutamente da vedere. Scene surreali e grottesche, di acida comicità in stile Underground, come quando troviamo Handke negli Usa alle prese con un cane bloccato con le zampe nell'asfalto bollente. La coscienza dello scrittore è ben rappresentata da un coperchio di latta che vaga in cielo da quando Emir bambino lo lanciò per gioco da una collina di Sarajevo: è il suo satellite morale. Quando si entra nel campo della «Storia permanente» - in Serbia il tempo s'arresta «come nella grande letteratura», per cui la battaglia della Piana dei Merli del 1389 non ha mai cessato d'essere di stretta attualità - Handke prende il nome di Pietro Apostolo Speleologo, perché è un cristiano che si sacrifica per la giustizia e perché s'avventura nel sottosuolo del sacro Kosovo, «collegato al mondo da una rete di sentieri nascosti».
Tra i tanti fantasmi aleggia quello di un altro Nobel, Ivo Andric, al quale Kusturica ha dedicato anni fa addirittura una cittadella, Andricgrad, alle porte di Visegrad nella Bosnia serbizzata nel 1992. Handke ha lì la sua statua a fianco di quella dell'autore de Il ponte sulla Drina. Una sorta di parco tematico-identitario: la celebrazione «di tutto ciò che i serbi avrebbero potuto avere e non hanno avuto a causa dei turchi» ha detto il regista-urbanista.
Un popolo che si ritiene eternamente in credito; e giustamente, secondo Goethe, che nel libro a un certo punto sentenzia: «Chi, come i serbi, scrive poesie su come conversano le stelle, merita una posizione migliore nella Storia».
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