L’affondo del «New York Times» «Un processo tutto sbagliato»

da Washington

La fretta più o meno improvvisa nell’esecuzione della sentenza di morte contro Saddam non ha cambiato i termini del dibattito, anzi della polemica che è venuta crescendo di intensità negli Stati Uniti già prima ma soprattutto dopo la sentenza. La maggior parte dei critici non seguono le ragioni che ispirano la quasi universale riprovazione dell’opinione pubblica europea. La maggior parte degli americani non ha niente contro la pena di morte in sé ed è difficile che un processo così singolare con un imputato moralmente così chiaramente colpevole ispiri un mutamento di opinione. Il discorso è invece sul piano politico, sulla opportunità politica del verdetto e dell’esecuzione. Ancora una volta il New York Times è la voce più autorevole nel coro della critica, e anche la più coerente. Il quotidiano è ritornato sull’argomento in due editoriali consecutivi sostenendo in pratica che il processo ha ulteriormente danneggiato la già gravissima situazione in Irak e avrà ripercussioni sia immediate sia a lungo termine, che non potranno non coinvolgere gli Usa. Il dibattito in Corte d’Appello, ricorda il New York Times è durato in tutto quindici minuti ed è stato seguito da una vera e propria corsa all’esecuzione. I diritti del condannato non sono stati rispettati e si è creato così un ulteriore pessimo precedente: «Si sarebbe potuto dimostrare che il Paese liberato dalla stretta mortale della dittatura di Saddam può avere un futuro migliore. Un processo condotto attentamente e con scrupolo avrebbe riparato nella coscienza degli iracheni almeno una parte dei danni inflitti dalla sua tirannide, avrebbe creato un precedente per la sovranità della legge in un Paese lacerato da decenni da arbitrarie vendette, avrebbe incoraggiato una qualche sorta di unità nazionale di fronte alle divisioni religiose ed etniche».
Avrebbe potuto ma non lo ha fatto. Il processo ha invece approfondito gli odi, è stato condotto esso stesso come una vendetta, estremamente politicizzato. Ha contribuito ad attizzare ancora di più la catena delle vendette e dell’illegalità. E il New York Times cita l’ultimo esempio: i cento prigionieri politici che solo un attacco armato da parte delle forze britanniche a Bassora ha salvato dalla tortura per mano delle «squadre della morte» delle milizie sciite, spesso incoraggiate o protette dal nuovo regime. «Abbattere Saddam Hussein non ha creato un Irak nuovo e migliore. Tanto meno ci si arriverà uccidendolo».
Una opinione recisa e, va aggiunto, «elitaria», ma che trova più risonanza di quanto sarebbe accaduto in un altro momento, soprattutto se la guerra fosse andata un po’ meglio, nel momento in cui Bush, pur esaltando la condanna a morte di Saddam come un «evento storico», ammette che l’America «non sta vincendo la guerra», tocca i minimi anche la fiducia nel «nuovo ordine» che dovrebbe essere stato instaurato a Bagdad.

Non manca tuttavia chi è di diversa opinione, enumera i delitti di Saddam, riconosce che il processo era «bacato» dalla composizione della Corte, della sua subordinazione al governo, dalla destituzione di un magistrato e dall’assassinio in serie degli avvocati difensori; c’è chi conviene che da quel Paese in questo momento non si poteva realisticamente pretendere di meglio. «Un processo estremamente imperfetto - scrive ad esempio la Washington Post -, ma se anche fosse stato perfetto non ne sarebbe uscita una sentenza diversa».

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