L’agonia di Napoli

Ci si interroga sulla tragedia di Napoli, ci si chiede come e perché malavita e violenza abbiano avvelenato sin nelle più intime fibre il popolo di una metropoli che già secoli addietro aveva respiro e importanza europei. C’è da rompersi la testa: com’è possibile che una città con grandi tradizioni culturali, con università e centri di ricerca, editori, giornali, banche, importanti realtà produttive, armatoriali, commerciali, d’artigianato si lasci trascinare all’inferno da un «sistema» camorristico e di minuta criminalità che promuove e sfrutta l’illegalità diffusa? Perché abbiamo covato le uova di questi draghi che oggi fanno più paura del Vesuvio?
Il male di Napoli ha radici lontane e forse, per cercare di capire, dobbiamo fare qualche passo indietro. E dire, senza paura d’apparire marziani e politicamente scorretti, che l’agonia civile di Napoli è cominciata quando le sorti della seconda guerra mondiale cominciarono a volgersi a sfavore dell’Asse e dell’Italia. Agli inizi degli Anni Quaranta Napoli aveva ancora molti problemi, ma la visione espansionistica e colonialista del regime di allora ne sosteneva l’economia. Napoli era porto di primaria importanza per la proiezione nel Mediterraneo e poi c’erano attività siderurgiche e industriali, manifatture di guerra, dai silurifici agli spolettifici, alle fabbriche di munizioni, alle raffinerie, alle fabbriche di materiali per l’esercito, dalla pasta alle divise. La camorra aveva conosciuto un’eclissi significativa. Certi fenomeni di criminalità organizzata sorgono e storicamente si consolidano quando un regime muore nel disordine civile e nell’indebolimento del potere. Mafia e camorra – dopo verrà la ’ndrangheta, per contagio – nascono quando il sistema borbonico si sfascia e il nuovo ordine usa spregiudicatamente l’una e l’altra, in Sicilia e a Napoli. L’Unità significa anche l’utilizzo dei «picciotti» e dei camorristi. Basta una sola chiamata per seminare nei decenni i germi dell’anti-Stato.
Ma nel 1940 il fascismo aveva praticamente chiuso i conti col crimine organizzato. Gli ultimi guappi s’erano presi tanti schiaffi, confino, sorveglianza speciale, deportazione nelle isole. Il regime sfruttava il suo autoritarismo, le sue velleità totalitarie (mai realizzate in realtà), il garantismo non s’usava e l’apparato poliziesco girava a pieno ritmo. I guappi dell’ultima ora s’erano messi in camicia nera ed erano sorvegliati, attenti a non alzare la testa e la voce. Nessuno rimpiange i tempi passati, ma bisogna ammettere che il pugno di ferro può essere efficace. Si pensi all’esplosione della mafia in Russia dopo il crollo di quel terribile regime comunista.
Napoli, dunque, nel 1940 è viva, non è infetta. Ma paga il suo privilegio strategico, l’importanza del suo porto. Relativamente presto diventa il bersaglio costante di innumerevoli missioni di bombardamento degli alleati. Uno strazio, una sofferenza senza fine. Napoli ha pagato un prezzo spaventoso durante la guerra: bisognerebbe rivedere i filmati girati dai vigili del fuoco, testimonianze agghiaccianti che anni fa la Rai ha trasmesso. Negli ultimi mesi di guerra Napoli fu martirizzata; esplose anche, in porto, una nave portamunizioni e uomini e materiali furono scaraventati fin sui tetti del Vomero. Un’ecatombe. L’Italia che preparava l’8 settembre non poteva soccorrere e sostenere quella Napoli, quella del monastero di Santa Chiara la cui vista rendeva il cuore scuro scuro. La liberazione vide una città devastata, di affamati e di senzatetto, di bambini denutriti che vagavano fra la macerie. Una miseria nera, una regressione civile senza precedenti. Bella cosa la liberazione. Però, però... Sforziamoci di essere chiari. Con gli americani bisogna stare fianco a fianco in prima, guai a stare nelle loro retrovie. Le retrovie sono come le sentine, puzzano di marcio e di intrallazzo, di prostituzione e di affari osceni, con una mafia di sottufficiali stelle e strisce che svendono i depositi militari più ricchi che il mondo abbia mai conosciuto, sotto ufficiali che o non vedono o fingono di non vedere. I film hanno descritto Saigon putrida di bordelli e droga, c’è anche una ricchissima letteratura sul degrado di Napoli nell’immediato dopoguerra: ma chi legge in questo Paese di presuntuosi? Cito soltanto il Curzio Malaparte di La pelle e qualche pagina della Dama di piazza di La Capria. La Napoli dell’intrallazzo e dei soldi facili, della camorra che risorge, così come la mafia in Sicilia esce dal letargo forzato. E già, a Nola – il più grande deposito che assicura i rifornimenti agli alleati impegnati nella campagna d’Italia – si è già installato don Vito Genovese, che gode della protezione del colonnello americano Charles Poletti, al quale regala, per ingraziarselo, una decappottabile gialla fatta giungere appositamente dagli Stati Uniti. «Vuo’ a Packard? Eccola».
Il reticolo mafioso si estende, nella città senza legge emerge una rinnovata camorra che ha poco da temere da uno Stato latitante.
Da allora Napoli non s’è più ripresa. Anche perché il gracile apparato statale della Repubblica neonata non aveva né risorse né chiara volontà di recuperare il senso della legalità perduta nella città dolente. Ci fu, anzi, una sorta di scellerato patto non scritto: lo Stato non voleva e non poteva fornire i servizi adeguati a una realtà metropolitana come Napoli, però avrebbe tollerato comportamenti illegali più o meno di massa, come il contrabbando, la ricettazione a cielo aperto, la contraffazione patente di numerosi prodotti, le tante irregolarità connesse alla famigerata economia del vicolo. Dopo la guerra si sono tollerati a Napoli fenomeni che nel 1934 o nel 1938 non si sarebbero tollerati. Eppure in quegli anni non si scialava, ma sembra che anche il bisogno e addirittura la miseria avessero un’accettabile dignità civile. Il buonismo uccide. La tolleranza, lo sbracamento, la socialità malamente intesa producono incultura di massa, illegalità, disprezzo per lo Stato e per il senso civico. E anche chi non è direttamente contagiato, impara a chiudersi nel suo bozzolo, a farsi gli affari suoi; spesso, convive e traffica con gli uomini del malaffare. È questo il virus che ha attaccato tanti professionisti, tecnici, colletti bianchi, esponenti di una borghesia che pure ha fatto il ’99, fino al patibolo.
Tutto questo può aiutare a capire perché oggi a Napoli la camorra costituisce un blocco sociale, perché oltre agli affiliati ci sono migliaia di persone che campano di malaffare. E i parenti e i compari dei camorristi sono convinti quasi di esercitare un diritto conquistato sul campo quando impediscono alle forze dell’ordine di operare un arresto. O quando edificano quartieri blindati nei quali i poliziotti non possono entrare. La rete dei contrabbandieri di sigarette, tollerata per anni, ha sostituito la droga alle «bionde» e ha dato ai clan una riserva di liquidità che consente di inquinare l’economia, condizionare la politica, sfruttare gli appalti e la spesa pubblica.
Bisogna ricominciare da Napoli anno zero. Bisogna effettuare una riconquista del territorio puntando sul comune senso della legalità e del diritto. Napoli non è un’eccezione folkloristica che giustifichi delle franchigie legali.

Poiché la situazione non è più tollerabile si ricominci dal rispetto della legge, più o meno tolleranza zero, che si tratti del pagamento delle bollette dell’acqua, della nettezza urbana, delle cinture di sicurezza, dei piccoli furti dei minorenni. Che poi crescono.
Adesso si chiede, poi si darà. Di miracoli basati sulla tolleranza senza fine e sui falsi rinascimenti ne abbiamo abbastanza. Li lasciamo alla sinistra che se ne nutre.

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